L’architettura ha sempre svolto un importante compito testimoniale e memoriale. Ne è una dimostrazione lampante la parola italiana “monumento”, che deriva dal verbo latino monēre, ovverosia “ammonire”, “ricordare”, “far sapere”. Oltretutto, la parola ha un’assonanza non banale con un altro verbo latino: manēre, cioè “restare”, rimanere”. In parole povere: ciò che ha la forza di restare in piedi, sfidando il trascorrere dei secoli, assume già di per sé il valore di un monito, di un invito a non dimenticare. Tanto più l’affermazione è valida per quegli edifici – mausolei, sacelli, santuari eccetera – che, in ogni epoca, sono stati costruiti espressamente allo scopo di commemorare qualcuno o qualcosa, nel luogo preciso a cui si lega quel personaggio o quell’evento storico.
Da questo punto di vista, l’architettura del secolo XX e di questo scorcio iniziale di secolo XXI ha voluto puntare ancora più in alto. E non poteva essere che così, giacché l’età delle due guerre mondiali, degli ordigni nucleari e di tanti drammi umani, bellici e tecnologici, ha potenziato, di pari passo, anche le proprie capacità di archiviazione dei fatti storici, passando dai supporti analogici a quelli digitali, che permettono di preservare dall’oblio una mole pressoché illimitata di notizie. In un arco di tempo relativamente breve, quella della memoria è diventata una vera e propria industria culturale.
A questa industria, l’architettura ha prestato i propri modelli tradizionali, già menzionati sopra, e ne ha offerti di nuovi, come ad esempio i musei storico-tematici: musei della guerra, della resistenza, dell’olocausto e di molte altre occorrenze che hanno caratterizzato il nostro passato prossimo. Inoltre, molti scenari di tragedie consumatesi nei decenni scorsi sono stati musealizzati e “monumentalizzati” in quanto tali. Si pensi, per restare in Italia, alla Risiera di San Sabba di Trieste, sede di un campo di detenzione e sterminio nazista, trasformata nel 1975, su progetto di Romano Boico, in Museo Civico. O al paese di Gibellina, raso al suolo cinquant’anni fa dal terremoto del Belice e poi trasformato, su disegno di Alberto Burri, in una gigantesca archiscultura cementizia. O, ancora, all’abitato di Longarone, il paese distrutto il 9 ottobre 1963 dal disastro del Vajont, e in particolare alla chiesa parrocchiale di Santa Maria Immacolata, ricostruita negli anni 1975-82, su un progetto molto discusso di Giovanni Michelucci, nel luogo stesso in cui sorgeva il tempio precedente 〈1〉. Seguendo questa falsariga, si potrebbe arrivare fino al Museo Ebraico di Berlino, inaugurato nel 2001 su progetto di Daniel Libeskind, ed anche oltre, se l’elenco non rischiasse di diventare pletorico.
Ma qual è l’assunto ideologico-filosofico che accomuna tutti questi esiti, certificandone la conformità ai canoni di una presunta modernità, internazionalità, democraticità? Si tratta della convinzione, tipicamente novecentesca, che gli eventi storici a cui si fa riferimento, e tanto più quelli luttuosi, meritino una presa di coscienza speciale, irripetibile, vissuta al di fuori di ogni gerarchia precostituita. Una presa di coscienza che, in qualche modo, interiorizzi le ferite passate, mantenendone vivo il ricordo e sviluppando gli anticorpi culturali che ne prevengano il riaprirsi. Così, il visitatore che attraversa questi “luoghi della memoria” si trova messo di fronte ad ogni sorta di linee sghembe, strettoie, diversivi, tortuosità, giri viziosi. Un’esperienza in cui architettura, scultura, installazione ed altri linguaggi espressivi si mescolano e si confondono, per dare luogo a un percorso etico e psicologico in cui i vari ambienti ed allestimenti si fanno metafora del senso di colpa, del pentimento, della rigenerazione. Nessuno stile, al massimo stilemi elementari e caotici: nelle strettoie del politicamente corretto, la nozione stessa di “stile” può diventare sinonimo di passatismo, di nostalgie autoritarie.
Premessa e, al tempo stesso, corollario di tutto ciò, è la glorificazione della figura dell’architetto, inteso come artista tout court, senza aggettivi. Ovvero: non più tenuto a seguire i classici binari del senso comune, della funzione civica, del decoro, che in passato disciplinavano e coordinavano ogni suo passo, egli è finalmente libero di essere compiutamente “artista”, ossia di farsi carico delle contraddizioni dell’umanità, ponendole al centro della propria ricerca individuale e specchiandosi in esse. Il presupposto, nemmeno tanto implicito, di questo tipo di approccio, è che l’artista del passato era oppresso dai mille lacci e laccioli rappresentati dal “mestiere”, dall’essere cioè tenuto ad osservare codici tecnici e linguistici prestabiliti, spesso imposti dalla committenza. Mentre l’artista moderno (o contemporaneo che dir si voglia) si è finalmente guadagnato la completa libertà di espressione, e quindi deve rendere conto solo a se stesso del proprio operato. Quanto al pubblico, sta a lui rendersi edotto in materia, ponendosi nella condizione di comprendere ed approvare ciò che gli viene proposto e, quindi, di trarne il meritato godimento intellettuale.
Come i lettori di FD ormai sanno, non condividiamo quest’ottica, che, nel suo semplicismo romantico, falsifica tanto la posizione dell’artista quanto quella del pubblico. Dell’artista, perché con la scusa di immaginarlo “libero” (da chi? da che cosa?), lo consegna ad uno status meramente privatistico ed autoreferenziale, forse stimolante in chiave individualistico-espressionistico-analitica, ma palesemente inadatto ai compiti di un’arte pubblica, legata non all’identità individuale ma a quella collettiva. Del pubblico, perché lo relega alla funzione passiva di spettatore, senza considerare che, tanto più se si parla di architettura, esso è in realtà l’ospite, l’abitante, il proprietario: come quando ci si reca a scuola o in municipio per poterne fruire i servizi, o si entra in chiesa, aspettandosi un luogo idoneo al raccoglimento e alla ritualità.
Ma torniamo alla chiesa parrocchiale di Longarone, un caso precoce e a suo modo esemplare di “senso di colpa” eletto a non-stile architettonico. Come si è detto, essa fu ricostruita da Michelucci dopo la tragedia del Vajont. Giovanni Michelucci (1891-1990) è architetto noto al grande pubblico per aver firmato nel 1933-35 (con l’apporto determinante di Angiolo Mazzoni, ingegnere capo delle Ferrovie dello Stato) la stazione fiorentina di Santa Maria Novella e, nel 1960-64, la celebre “chiesa dell’autostrada” di Campi Bisenzio, alle porte di Firenze, manifesto della nuova architettura sacra del secondo dopoguerra. Quello della chiesa di Longarone è un caso speciale, proprio perché alle sue normali funzioni pastorali si sommano, di fatto, quelle di memoriale di un martirio. Anzi, per certi aspetti non un martirio ma una vera e propria strage degli innocenti, quale fu quella che l’attore Marco Paolini ha così ben rievocato nel suo spettacolo teatrale Vajont (1993). Quale la soluzione proposta da Michelucci?
La chiesa presenta una pianta circolare sopraelevata a forma di catino, animata da una spirale ascendente e da un grande piano concavo-inclinato, che è tetto dell’aula in cui si celebra la messa e, al tempo stesso, base d’appoggio di un anfiteatro a cielo aperto, da cui lo sguardo spazia verso il tragico fondale della gola montana, sbarrata dalla gigantesca diga. Proprio come quest’ultima, anche la chiesa è interamente in cemento armato. Al posto del campanile, una serie di steli formanti archi e parabole, che convergono in alto a supportare la croce che si staglia contro il cielo. L’ingresso principale è schiacciato, quasi oppresso dall’ottovolante in cemento armato che lo sovrasta. Simbologie e percorsi interni sono pressoché indecifrabili se non si dispone di precise istruzioni. Il tutto risulta pesantemente drammatizzato, in ossequio ad un gusto che, pur di contraddire la logica dell’impianto basilicale tradizionale e far venir meno ogni parvenza di facciata e di abside, si esaurisce in un incongruo zibaldone di citazioni dall’architettura del ‘900: dalla torre Einstein di Mendelsohn, alla Cappella di Ronchamp di Le Corbusier, alle poetiche brutaliste.
Da notare che i movimenti spiraliformi ed avvolgenti sono tra i più utilizzati quando si vuole dare ad un oggetto architettonico i crismi della tragicità e dell’incompiutezza, alludendo ai lutti di cui esso è stato spettatore in passato. Un esempio molto noto ci riporta con la memoria alla Berlino degli anni del nazismo, quando la sede del parlamento, il Reichstag, venne dapprima incendiata (1933), poi devastata dagli occupanti alleati (1945). L’atto finale della lunga ricostruzione venne affidato all’architetto inglese Norman Foster circa un quarto di secolo fa, dopo che la Germania riunificata ebbe scelto di ridarsi Berlino come capitale. Il nuovo Reichstag di Foster, inaugurato nel 1999, si qualifica per la cupola interamente rifatta in vetro e metallo anziché in muratura, con una rampa ascensionale, percorribile fino al culmine della cupola stessa. Qui la riuscita è plausibile, anche perché proporzioni e volumi ricalcano quelli originali, dialogando con la parte dell’edificio precedentemente già ricostruita in stile. Quello che abbiamo chiamato “senso di colpa” è ben leggibile, ad ogni buon conto, anche nel minimalismo di Foster: il governo tedesco ha voluto in qualche modo fare ammenda per il proprio passato, evitando che la cupola ricostruita tornasse ad occupare, massiccia, il cielo berlinese, per consegnarla ad una trasparenza leggiadra quanto generica.
Ma è sufficiente che l’ego e le velleità del progettista prendano il comando delle operazioni, ed ecco che il senso di colpa, il “vorrei ma non posso”, diventa retorica della colpa, demagogia della catastrofe. Scorrendo la biografia di Michelucci, colpisce il fatto che, finita la seconda guerra mondiale, l’architetto fiorentino propose di ricostruire alcuni rioni bombardati nei pressi di Ponte Vecchio, riprogettandoli egli stesso: secondo lui, ricostruirli così com’erano equivaleva a commettere un falso storico. La proposta di Michelucci non passò e Firenze riebbe i suoi edifici all’antica. Analoga proposta fu fatta da Michelucci dopo l’alluvione del 1966 per i palazzi di piazza Santa Croce, ed anche qui senza esito. Ed altre ve ne furono, sempre con scarso successo. Insomma, il mito dell’artista incompreso, del Nemo propheta in patria, ha fatto capolino anche nella vita di uno degli architetti italiani più osannati e sopravvalutati del secolo XX. Ma sta di fatto che oggi nessuno, a Firenze, oserebbe seriamente lamentarsi per un Michelucci in meno e per un Ammannati o un Vasari (o anche solo un “attribuito a”) in più.
Le cose andarono diversamente nel piccolo paese di Longarone, patria di gelatieri apprezzati in tutto il mondo. Anche gli abitanti di Longarone insistettero, e non poco, per riavere la loro chiesa “così com’era”, senza feticismi filologici ma anche senza inutili superfetazioni 〈2〉. Ma Longarone non è Firenze, e dopo anni di polemiche gli abitanti dovettero rassegnarsi alla chiesa di Michelucci. Dopo il danno, la beffa. D’altronde, se nonostante tutte le proteste, le segnalazioni e gli allarmi lanciati, i cittadini di Longarone non erano riusciti a scongiurare il disastro che incombeva dietro la diga del Vajont, come avrebbero potuto evitare quella colata aggiuntiva di cemento al centro del loro paese ricostruito? Se in nome del senso di colpa – cioè, in ultima analisi, del peccato originale – perfino un edificio sacro non può più parlare altro linguaggio che quello della catastrofe e del caos, quale redenzione, quale rinascita potrà mai esservi, in questa vita o in un’altra?
〈1〉 Sulla parrocchiale di Longarone: F. Borsi et al., La chiesa di Longarone dell'architetto Giovanni Michelucci, Modulo editrice, Catanzaro 1978. 〈2〉 Sull'atteggiamento della popolazione: G. Capraro, G. De Vecchi, Due chiese e una tragedia, Parrocchia di Longarone, Belluno 1983. In alto: Giovanni Michelucci, Chiesa di Santa Maria Immacolata, 1975-82, Longarone (mapio.net). Sotto: la chiesa di Santa Maria Immacolata a Longarone, distrutta il 9 ottobre 1963 dall'eccidio del Vajont, in una cartolina d'epoca.