Le grandi catastrofi non agiscono solo sull’ambiente fisico. Sono un test di solidità anche per le costruzioni intellettuali, per i principi generali che orientano il nostro vivere. Un esempio: cent’anni fa il naufragio del Titanic fece colare a picco, insieme alla nave, anche il mito positivista di un progresso costante e indolore.
I principi generali che ispirano la teoria e la pratica del restauro in Italia sono fra quelli che, oggi, mostrano le maggiori difficoltà di tenuta. Secondo l’impostazione pressoché indiscussa, si dovrebbe guardare all’opera da restaurare, quale che sia, come ad un reperto unico, irripetibile, da conservare ad oltranza nella sua (ipotetica) originalità. In quanto “beni culturali”, non vi sarebbe differenza fra la Gioconda e l’immagine votiva dipinta all’angolo della strada, tra la cattedrale e la piccola pieve costruita e ricostruita da anonimi capomastri.
Il terremoto che dal maggio scorso scuote l’Emilia-Romagna ha messo a nudo i punti deboli di questa visione. Un’idea di restauro che impone il culto di pochi frammenti ricomposti con presunzione filologica spinta fino all’autoreferenzialità, al ready-made concettuale, rischia di ledere il diritto alla vita di tante opere minori, che mai si potranno restaurare nei tempi e coi costi consentiti a pochi capolavori. E trascura un dato di fondo: l’originalità di un’architettura (tanto più quella quotidiana, dimessa) non è in quei mattoni o in quella calce, ma nel disegno generale e negli elementi di decoro annessi. Ancora: la storicità di un oggetto non sta nel ridurlo a feticcio di qualcosa che non c’è più, ma nel salvaguardarne l’utilità e l’efficienza. Riparleremo presto di restauro. Come tutte le vere emergenze, anche questa impone domande e risposte non estemporanee, non effimere.
In alto: Castello di Sammezzano, Sala del “Nodum solve”, seconda metà sec. XIX, Reggello (Wikimedia Commons).