Tra gli artisti italiani attivi nell'età delle avanguardie storiche e fin oltre la metà del secolo XX, Gino Severini (Cortona 1883-Parigi 1966) è stato forse colui che si è maggiormente adoperato affinché i legami con la tradizione classica venissero preservati e valorizzati. La vicenda intellettuale di Severini e il suo impegno nell'arte pubblica, sia sacra che profana, testimoniano di una sensibilità figurativa raffinata, attenta a meditare tutte le fasi della realizzazione dell'opera. Appartiene a questa sensibilità anche il recupero della tecnica del mosaico. Recupero che accomuna Severini ad altri artisti italiani, da Sironi a Campigli a Saetti, per arrivare a Riccardo Licata, che fu suo allievo e collaboratore a Parigi. Severini si impegnò nel mosaico a partire dagli anni '30, elaborando cicli impegnativi come quelli per il Foro Italico di Roma, il Palazzo di Giustizia di Milano, il Palazzo delle Poste di Alessandria. Ad eseguire i suoi cartoni si alternavano gli specialisti provenienti dai più rinomati centri italiani per l'arte musiva, primo fra tutti Ravenna, il cui Istituto d'Arte fu intitolato proprio a Severini. Negli anni '50, l'artista tenne a Parigi, con l'appoggio dell'Ambasciata d'Italia, regolari cicli di lezioni sul mosaico. I testi di quelle lezioni vennero pubblicati trent'anni più tardi, in prima edizione italiana e mondiale, in un volume da cui traiamo la breve introduzione scritta dallo stesso Severini. La titolazione "Una scuola di mosaico" è nostra. Si tratta di un brano didatticamente lucidissimo, come del resto tutte le lezioni contenute nel libro, con interessanti riferimenti al passato recente (Cézanne, Van Gogh) e all'attualità (l'arte informale). Vedi G. Severini, Lezioni sul mosaico, a cura di B. Bandini, traduzione dal francese di P. Chiarini, Longo Editore, Ravenna 1988, pp. 19-22. Le immagini che corredano il testo sono il frutto di una scelta redazionale.
Le lezioni qui pubblicate sono state tenute nell’arco di cinque anni alla Scuola di Mosaico da me creata a Parigi.
Le mie esposizioni sono assai condensate, semplificate e limitate al fine che mi ero proposto, e che posso così riassumere.
A partire dal Rinascimento il mosaico è stato considerato come una tecnica al servizio della pittura, e questo è un errore fondamentale. Quando si pensa al mosaico, infatti, bisogna pensare ad un’arte che richiede una tecnica e dei materiali particolari.
Per questo ho finalizzato il mio insegnamento ad una formazione estetica basata sia sulla storia che sulle espressioni più attuali, ma nutrita al tempo stesso di un sicuro mestiere, i cui fondamenti risalgono ai primi mosaici murali del VI secolo, a Roma e a Ravenna.
Nella mia scuola gli allievi venivano messi in contatto fin dal primo giorno con gli smalti e i marmi da tagliare, la “martellina” e la “tagliola” indispensabili per tagliarli, la calce viva, la sabbia e il cemento per farli aderire alla superficie.
Una volta alla settimana una breve lezione di storia, e di teoria tecnica, di cui si danno qui i testi, con la massima concisione e precisione possibili.
Oggetto precipuo del mio insegnamento è stato il mosaico parietale, e in quanto arte murale il mosaico ancor più si allontana dal quadro, o pittura da cavalletto.
Trattandosi dunque di un’arte destinata a ricoprire vaste superfici, in chiese, palazzi pubblici, stazioni, ecc…, la non-rappresentazione, oggi tanto di moda, è poco indicata, perché gli smalti e i marmi, disposti su forme piatte, anche se con un certo mestiere, perdono molto del loro splendore; questi colori hanno bisogno di essere modulati in una molteplicità di valori pittorici che possono venir suggeriti soprattutto da una rappresentazione anche se lontana dalla realtà, trasposta e astratta come una testa di Cézanne o di Van Gogh.
Nella maggior parte dei casi, le forme piatte, in mosaico, sono un nonsenso. Tutto dipende però dalla formazione intellettuale e spirituale del mosaicista-artista che concepisce il cartone e prende parte o dirige l’esecuzione.
A parte queste regioni di ordine tecnico, quando si ha a che fare con un’opera d’arte murale destinata ad una chiesa, vi sono altre ragioni molto più gravi.
La prima è questa: la Chiesa in quanto tale ha permesso all’arte di introdursi nella “Casa di Dio” per un fine che travalica la decorazione, perché i fedeli amano vedere una “rappresentazione” del Dio e dei Santi a cui rivolgono le loro preghiere. Per questo si è fissata un’iconografia religiosa, che l’artista deve conoscere e che può servirgli di base ed aiutarlo molto se, a parte la fede, egli possiede un’autentica intuizione poetica e creatrice che gli permetta di rendere con un’immagine visibile lo splendore e l’espressione dell’invisibile.
L’altra ragione è questa: l’Arte di oggi, che viene chiamata astratta-assoluta, o informale, o altro, è un’arte che rifiuta tanto il mondo esistenziale creato da Dio, quanto, in genere, il mondo tecnocratico creato dall’uomo, il quale pretende ormai di partire da zero, di partire dall’io, che è l’unico oggetto della sua contemplazione. Quest’arte è essenzialmente antiteistica, e la bellezza che può raggiungere non è essenzialmente la bellezza che si addice ad un luogo di preghiera e di riflessione religiosa. È, per me, una bellezza sacrilega e artefatta: inesistente come espressione poetica di una realtà spirituale che trascende l’uomo. L’umanità che nasce dall’accostamento di pietre e smalti non basta a darle un’anima.
Ma torniamo appunto all’insieme di pietre e smalti.
Anticamente vi era una gerarchia fra i mosaicisti, come risulta da un editto di Diocleziano in cui, nel IV secolo, egli fa una distinzione fra coloro che preparavano il lavoro, facevano gli amalgami di calce, sabbia, polvere di marmo, ecc… e che venivano considerati come semplici manovali, e gli altri, cioè quelli che componevano i pannelli ed eseguivano le parti difficili come le teste, le mani, ecc…. I primi erano chiamati: lapidarius structor, o calcis coctor, o musearius; i secondi erano chiamati: pictor parietarius, o pictor imaginarius. Tutta la responsabilità dell’opera ricadeva assai probabilmente su quest’ultimo, ma egli non firmava.
Oggi il “pictor imaginarius” è di solito un pittore conosciuto, a volte un eccellente pittore, firma l’opera, ma non ha toccato una sola tessera, ed è ad ogni modo responsabile dei mediocri esiti di questa nefasta maniera di procedere.
Nella Scuola da me fondata, si lasciava naturalmente la più grande libertà agli allievi quando, avendo imparato a servirsi delle proprie mani e degli attrezzi, essi desideravano esercitarsi su composizioni create da loro stessi.
Ma ci si pongono allora tutti i problemi del nostro tempo, fra cui quelli relativi all’arte detta astratta, o non figurativa, e all’arte figurativa.
È indubbio che il mestiere di mosaicista permette assai difficilmente di lavorare con l’assoluta libertà che è ammessa nella pittura da cavalletto.
Il mosaicista non può contare sul caso o sull’automatismo. Per il suo lavoro tutto deve essere pensato e preparato in anticipo, fino a che punto…!
Gli attrezzi usati dai “tachistes”: bastoni, pennellesse, spatole, vetro in frantumi ecc… non gli servono per realizzare l’opera, ma solo per fornirle un sostegno materiale.
In fondo, gli stessi non figurativi più convinti non fanno altro che preparare l’opera lasciandola a metà, incompiuta. Preparano il fondo come il mosaicista prepara il rinzaffo e l’intonaco. Sono dei lapidarius structor e stanno all’opera plastica e poetica compiuta come l’esercizio della “sbarra” sta alla danza, o gli arpeggi alla musica.
Un giorno forse anch’essi danzeranno e faranno musica; diventeranno allora dei pictor imaginarius. Ma bisognerà prima riammettere “il mondo esistenziale delle cose”, identificarvisi e amarlo.
Ma nel frattempo il loro esempio non può essere molto utile al mosaicista. Ciò nonostante, io sono convinto che quest’ultimo non deve allontanarsi dal suo tempo, essere insensibile o refrattario alle preoccupazioni, alle angosce contemporanee. Malgrado tutte le riserve che si possono fare, le intenzioni e le aspirazioni di oggi, anche se non realizzate o spesso impantanate e senza via di uscita, costituiscono uno sforzo così grande e apprezzabile verso la libertà dello spirito, e verso realtà talmente al di sopra del mondo sensibile, che non le si può respingere alla leggera, tanto più che questa elevatezza dei fini da raggiungere trova corrispondenza nelle intenzioni dei nostri maestri mosaicisti di Ravenna, ma essi non si consideravano al di fuori dell’umano e del sensibile, e potevano tuttavia essere veri, surreali, e poetici, come noi vorremmo essere.
Ma soprattutto bisogna diffidare dell’inevitabile manierismo in cui molti artisti d’oggi sono già caduti e, ahimé, cadranno.
Ma la difficoltà e la severità del mestiere di mosaicista gli impone una disciplina che il libero pittore ha perso di vista. In questo mestiere, al servizio di un’arte sublime, non si raggiunge la poesia con la sorpresa, la violenza o il caso.
Sia gli architetti che i pittori faranno bene a non dimenticarlo.
In alto: Gino Severini fotografato nel 1956 da Ida Kar. Sotto: Gino Severini (su disegno di), Storia delle comunicazioni (particolare), 1940-41, mosaico, m. 1,20 x 38, Alessandria, Palazzo delle Poste.