La scomparsa, il 2 marzo scorso, di Gillo Dorfles, sollecita anche da parte nostra un omaggio al grande critico e studioso di estetica nato a Trieste nel lontano 1910. La varietà di interessi di cui egli ha dato prova, infatti, è stata tale che non vi è settore della ricerca artistica e culturale che egli non abbia toccato prima o poi. Non c’è settore a cui egli non abbia regalato qualche spunto, qualche indicazione a cui aderire. O a cui opporsi, il che non è meno importante.
Nella sua lunghissima vita, Dorfles è stato dapprima modernista ad oltranza; poi, con altrettanta convinzione, postmodernista. Come teorico del disegno industriale si è identificato nel rigorismo razionalista; come pioniere degli studi sul Kitsch, ha preso le distanze da quel rigorismo. È stato un grande studioso e critico, sempre capace di prendere posizioni autonome e non di rado controcorrente, come quando, col saggio Fatti e fattoidi (1997), fu tra i primi a stigmatizzare il crescente sensazionalismo della comunicazione contemporanea, anche in campo artistico e culturale; è stato anche, per tutta la vita, un valido pittore e disegnatore.
Che nell’eclettismo di Dorfles talvolta i conti non tornino, che egli abbia peccato qua e là di incoerenza, è non solo possibile ma, in qualche misura, inevitabile. Di certo, la mole di fenomeni di cui egli è stato testimone ed interprete è imponente. Da lui, generazioni di lettori hanno imparato ad esercitare il diritto-dovere della curiosità. Perciò ci si ricorda di Dorfles come di un grande vecchio e, al tempo stesso, come di un eterno giovane.
Vi è una circostanza biografica che, dopo la morte di Dorfles, è già stata più volte richiamata, ma senza forse coglierne la reale portata. Sappiamo infatti che, nei quasi centootto anni della sua esistenza, egli fece in tempo ad essere cittadino austriaco, giacché, nel 1910, Trieste apparteneva ancora all’impero di Francesco Giuseppe. Un mitteleuropeo insomma, nato nel lembo più meridionale della Mitteleuropa.
Si potrebbe allora sostenere che con Dorfles se ne sia andato l’ultimo esponente di un certo modo di integrare arte, estetica, psicologia, sociologia, sensorialità, che è stato tipico della cultura austro-tedesca, nell’età del suo massimo fulgore e del successivo tramonto. Un modo che, tra gli storici dell’arte, è passato attraverso nomi come Alois Riegl (1858-1905), Max Dvořák (1874-1921), Erwin Panofsky (1892-1968), fino ad arrivare ad Ernst H. Gombrich, nato a Vienna un anno prima di Dorfles, nel 1909, e morto a Londra nel 2001. Ma a differenza di costoro, a Gillo Dorfles non è bastato coltivare la grande tradizione artistica classica, medievale e rinascimentale. La cultura del secolo XX è diventata, col tempo, il suo vero territorio di elezione.
Un ulteriore motivo di riflessione tocca più da vicino chi, come noi di FD, si occupa di decorazione e di decoro nell’arte. Nella sua vasta produzione saggistica, Dorfles ha trovato modo di dedicarsi anche a questo argomento. Ma non lo ha fatto in quegli anni ’60-’70 a cui risalgono i suoi volumi più noti, da Introduzione al disegno industriale (1963) a Kitsch (1968) a Le oscillazioni del gusto (1970). All’epoca, infatti, Dorfles poteva ritenere tutt’al più che i fenomeni inerenti alla decorazione fossero anch’essi da ascrivere alla categoria, a lui così cara, del Kitsch. D’altra parte, dopo l’anatema antidecorativo lanciato mezzo secolo prima da un altro viennese, Adolf Loos, col suo Ornamento e delitto, era proprio il Kitsch la sola eresia che un modernismo ortodosso, ancora saldo sulle proprie posizioni, potesse permettersi.
L’occasione di ritornare con maggiore libertà sul tema si presentò col finire degli anni ’70. Iniziava l’età del postmodernismo: si tenevano le prime biennali veneziane di architettura guidate da Paolo Portoghesi e Aldo Rossi; apparivano in libreria il romanzo di Umberto Eco Il nome della rosa e la raccolta di saggi filosofici, a cura di Pier Aldo Rovatti e Gianni Vattimo, Il pensiero debole; si registravano le prime avvisaglie di quel fenomeno che, nella vita sociale e politica, avrebbe preso il nome di “riflusso”. Come altre coscienze critiche, ormai a disagio in una situazione in cui il dosaggio di massimalismo ideologico e minimalismo estetico aveva raggiunto limiti non più tollerabili, anche Dorfles avvertiva che il giro di boa era imminente. Urgeva quindi una correzione di rotta.
Fu nel 1986 che egli pubblicò Elogio della disarmonia, un libro interamente dedicato al nuovo clima culturale che stava delineandosi. Un capitolo del libro, intitolato “L’ornamento e il suo valore mitopoietico”, svolge gli argomenti che ci riguardano più da vicino, e ne consigliamo vivamente la lettura 〈1〉. Ci limitiamo qui a ricordare i titoli dei quattro paragrafi che compongono il capitolo: “Ornamento e natura”; “Ornamento e arte”; “Lo scribble infantile e i simboli archetipi”; “Carattere ornamentale dell’arte astratta”.
Argomento del primo paragrafo è la presenza, anche in natura, di pattern ornamentali. È questo uno dei tratti caratteristici che avvicinano il pensiero di Dorfles a quello di Gombrich, che se ne era occupato qualche anno prima nel suo fondamentale The Sense of Order, pubblicato nel 1979 〈2〉.
Nel secondo paragrafo, l’autore fa i conti con le posizioni di Loos e del Movimento Moderno, dichiarandole ormai storicizzate ed affermando la necessità intrinseca dell’ornamento, inteso non più solo come orpello, reazione fisiologica all’horror vacui, ma come modo di essere di intere civiltà.
Il terzo paragrafo torna, con gli indispensabili aggiornamenti psicopedagogici, sul tema, già caro a Loos, dello scarabocchio infantile, per individuarvi la fonte di attività simboliche più complesse, produttrici di archetipi universali.
Il quarto ed ultimo paragrafo fa riferimento al panorama artistico degli anni ’80 del secolo scorso, prendendo atto di quel ritorno all’ornamentalità, che molti critici all’epoca già stavano captando. I riferimenti europei ed americani di Dorfles (in particolare il movimento Pattern and Decoration e, tra i suoi esponenti, un pittore allora sulla cresta dell’onda come Robert Kushner) ci parlano di una tendenza all’epoca diffusa, con punte di notevole interesse soprattutto nel campo dell’arte pubblica. Tuttavia la tesi generale di Dorfles, secondo la quale gran parte dell’arte astratta novecentesca dovrebbe considerarsi ornamentale, è francamente eccessiva, anche se, come tutti i paradossi, può esercitare un certo fascino 〈3〉. Più persuasive appaiono le notazioni di Dorfles sull’ornamentalità come fatto intrinseco a tutte le arti, dalla musica alla letteratura. Anche questo passaggio suona come una revisione delle posizioni espresse a suo tempo da Loos in Ornamento e delitto.
Ma veniamo alla chiusa del capitolo: «Quale, in definitiva – scrive Dorfles – la conclusione di quanto ho detto sin qui? Che, troppo spesso, ancor oggi, si attribuisce al termine “ornamento” una connotazione derogatoria che non gli spetta; che per contro, è proprio nell’insieme di elementi costitutivi dell’ornamentazione che risiede uno dei più fecondi spunti formativi d’un’epoca culturale; per cui lo stadio ornamentale potrà essere a seconda dei casi, tanto l’embrione d’una successiva opera d’arte compiuta, quanto l’estrema aggiunta, la propaggine della stessa; che, pertanto, potrà esistere, solo con estrema difficoltà e in condizione anomala, un’opera dove l’ornamento non entri, prima o poi, in gioco, quale fattore determinante e necessario d’ogni divenire artistico» 〈4〉.
Per l’epoca, il ragionamento di Dorfles era probabilmente la maggiore apertura possibile nei confronti di posizioni che, fino a poco tempo prima, egli stesso avrebbe giudicato antimoderne (dunque sorpassate ed improponibili), salvo riciclarle poi come postmoderne.
Qui sta, crediamo, il nocciolo della questione: le omissioni e gli equivoci a cui Dorfles tenta di porre rimedio, sono, piaccia o no, anche le sue omissioni, i suoi equivoci. Vi è infatti una lacuna concettuale e terminologica di fondo, che pervade il discorso di Dorfles sull’ornamento. Ornamento e ornamentazione sono la materia prima costitutiva della decorazione, non già la decorazione in quanto tale. Senza un principio ordinatore superiore, essi sono al massimo un lussuoso orpello. Il fatto stesso di servirsi solo della parola “ornamento” e dei suoi derivati, evitando sistematicamente di parlare di decoro e di decorazione, ci dice quanto ancora sia forte, in Dorfles, la rimozione delle radici classiche (il decus latino) che stanno alla base del rapporto tra ornamento ed arte e, in particolare, tra ornamento e progettazione architettonica.
Ma è il titolo stesso del libro di Dorfles – un titolo tipico del clima anni ’80, in cui ogni disputa veniva condita con un pizzico di irrazionalismo e di New Age – a suonare straniante. Un’espressione come Elogio della disarmonia, infatti, ha poco a che fare con la reale natura dell’ornamento, che, nei contesti storici in cui si afferma, è, al contrario, armonia, ordine, sequenzialità logica, organicità, pulsazione ritmica. Che poi il prodotto finale possa addirittura prendere sembianze casuali ed aleatorie, dipende dall’abilità dell’artista-decoratore nel dissimulare le difficoltà tecniche insite nel suo progetto, e non certo da una presunta disarmonicità della decorazione in quanto tale. Anche il titolo del capitolo, “L’ornamento e il suo valore mitopoietico”, è sintomatico. È tutta l’arte semmai, come tale, ad essere non tanto mitopoietica (parola suggestiva ma generica) quanto poietica: cioè, traducendo alla lettera, “fattrice”, “creatrice”.
Vi è, per finire, un ultimo, interessante risvolto, che va molto al di là delle personali posizioni di Dorfles, e che anche per questo merita di essere sottolineato. Ovvero: tra la fine del secolo XIX e la fine del secolo XX, quella pro o contro la decorazione è, a quanto pare, una querelle molto mitteleuropea. Nel tardo ‘800, infatti, è Riegl (e prima di lui Gottfried Semper) a dare dignità critica e storiografica all’argomento. A inizio ‘900, Loos teorizza la superfluità dell’ornamento nella società moderna, proponendone la radicale eliminazione. L’anatema lanciato da Loos sortisce i suoi effetti (principalmente nel campo dell’architettura e del design) fino ai due terzi del secolo XX, quando la morsa comincia ad allentarsi. Nel 1979, come abbiamo già detto, Gombrich pubblica The Sense of Order, il contributo teorico più importante che il ‘900 abbia dedicato alla rivalutazione delle pratiche ornamentali, da decenni confinate nel purgatorio della non-arte e del Kitsch. A questa vicenda, le considerazioni avanzate da Dorfles in Elogio della disarmonia aggiungono un tassello significativo, pur entro i limiti che abbiamo cercato di evidenziare.
〈1〉 G. Dorfles, Elogio della disarmonia, Milano, Garzanti, 1986, pp. 148-157. 〈2〉 Ed. it.: E.H. Gombrich, Il senso dell'ordine, Torino, Einaudi, 1984. 〈3〉 La tesi è stata più volte ripresa e sviluppata in seguito. Vedi ad esempio M. Brüderlin (a cura di), Ornament and Abstraction. The Dialogue between non Western, Modern and Contemporary Art, catalogo della mostra, Basilea, Fondazione Beyeler, 2001. 〈4〉 G. Dorfles, Elogio della disarmonia, cit., p. 157. Sopra, in alto: Gillo Dorfles in una foto del 2010. Sotto: Robert Kushner (su progetto di), Pannello decorativo, 2004, mosaico, New York, 77th Street Subway Station (www.mta.info).