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Una disputa architettonica nella Milano di Maria Teresa d’Austria

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Pubblicato a puntate tra il 1859 e il 1864, Cento Anni è il libro più importante di Giuseppe Rovani (Milano 1818-1874). Lo scrittore vi rievoca un secolo di vicende milanesi, dal 1750, quando si era in piena dominazione austriaca, al 1850, ormai a ridosso dell'unificazione nazionale. Si tratta di un romanzo-fiume dalla trama esile, ma irto di digressioni storiche, topografiche, archivistiche, che ne fanno un unicum nella storia letteraria dell'ottocento italiano. Il fascino di queste digressioni sta nel fatto che esse sono rigorosamente documentate e verosimili, e che vi compaiono personaggi sia d'invenzione, sia realmente vissuti: ora solo menzionati nel corso della narrazione, ora messi direttamente in scena e fatti agire. Nel brano che riportiamo, ambientato nel 1766, due immaginari cittadini milanesi discorrono - mentre è di passaggio la carrozza della contessa V..., una protagonista del romanzo - intorno al destino architettonico ed urbanistico del luogo in cui si trovano: la piazza del Duomo. È noto che la vicenda del Duomo di Milano, la cui prima pietra fu posta nel 1387, e dello spazio urbano circostante, si protrasse fin dentro il novecento. Compiuta la facciata del Duomo nel 1813, la piazza attendeva la sistemazione definitiva. Sistemazione che si ebbe dopo l'unità d'Italia, sempre tra mille polemiche, con l'abbattimento di antichi fabbricati e l'esecuzione, peraltro parziale, del progetto di Giuseppe Mengoni, di cui si ricorda soprattutto la galleria Vittorio Emanuele, conclusa nel 1877. Anche il secolo XX contribuì alla piazza coi due edifici gemelli dell'Arengario, la cui costruzione, iniziata nel 1936, si concluse solo nel 1956, ed uno dei quali è stato recentemente rimaneggiato per inaugurarvi, nel 2010, il Museo del Novecento. I due personaggi del dialogo di Rovani sostengono tesi opposte: l'uno è per una concezione progettuale che uniformi l'intero spazio della piazza, l'altro per una molteplicità di interventi architettonici che si armonizzino e si amalgamino. Ma la loro divergenza teorica ha una solida base unitaria: l'idea che la piazza sia, per eccellenza, il luogo dell'identità collettiva e del decoro civico che ne è la manifestazione visibile, e che i singoli edifici siano gli elementi costitutivi di tale decoro. Una lezione di civiltà che, pur nella bonarietà e nell'umorismo della scrittura di Rovani, non può passare inosservata. Essa sta a ricordare, anche al lettore di oggi, che il decoro urbano non è un elemento accessorio ma la dignità stessa della città e dei suoi abitanti, nonché la miglior contropartita possibile degli investimenti economici, politici e sociali, che gli spazi della vita pubblica comportano. L'edizione da cui abbiamo tratto il brano (la titolazione è redazionale) è la seguente: G. Rovani, Cento anni, Rizzoli, Milano 1960, vol. II, pp. 586-592. Le immagini che corredano il testo sono il frutto di una scelta redazionale.

– Che bella cosa – (saltò su a dir uno, che non s’era mai mosso da sedere, e tutto assorto nella contemplazione della scena che gli si spiegava dinanzi, non s’era nemmen lasciato tentare dalla curiosità di veder dappresso la contessa e la sua figliuola); – che bella cosa, – disse, – se invece di questa miseria di piazza, chi ha pensato a far sorgere questa montagna lavorata, avesse anche provveduto a distenderle intorno uno spazio conveniente, decorato di edifizi, degni della città!… In una notte come questa immaginatevi che magnifico effetto farebbe.

– Quando il Duomo sarà finito, sta’ tranquillo, che chi verrà dopo di noi penserà a far quello che non si poteva e non si doveva fare tre secoli fa.

Mappa della piazza del Duomo di Milano prima e dopo l’unità d’Italia (www.lombardiabeniculturali.it).

– Perché non si poteva?

– Ma vuoi tu che si pensasse a fare la cornice prima di veder l’effetto totale del quadro?

– Può darsi benissimo che tu abbia ragione, ma una piazza non è una cornice; e il popolo passeggia e si ferma e si trattiene in piazza prima ancora di entrare in chiesa, sicché l’opportunitа della piazza è contemporanea al tempio che vi deve campeggiare. Dirò di più, che se si fosse pensato fin d’allora a distendere la piazza per tutto lo spazio necessario a sì gran mole, anche il Duomo vi avrebbe guadagnato, e non sarebbe venuto in mente agli ingegneri del secolo passato, quando vennero a cessar gli scalpori sui tre progetti del Castelli, del Richini e del Buzzi 〈1〉, di impicciolire e immiserire il progetto dell’ultimo, respingendo l’idea dei due giganteschi campanili ai fianchi della facciata. La piazza regolare avrebbe mostrato che i due piloni laterali che vediamo adesso, non adempiono alle leggi della proporzione con tutto il resto del tempio. Che volete? la mia sarа un’idea stramba, ma due anni fa, quando Paolo Frisi 〈2〉 si oppose alla determinazione degli ingegneri ed architetti del Duomo di innalzare la massima guglia sul lucernario prima di compire le altre parti del tempio, io ho detto: il padre Frisi, da quel grande uomo che è, ha ragione, ma avrebbe più ragione ancora se dicesse: “signor capitolo del Duomo, signora fabbriceria, signori architetti e ingegneri, non abbiate tanta fretta; aspettate a far la guglia; aspettate a far la facciata; e innanzi tutto sollecitate il pensiero di distenderle innanzi una piazza. La prima operazione dev’essere questa”.

– E dove si troverebbero i danari?

Duomo di Milano, Palazzo Reale e rione Rebecchino in una foto di anonimo, 1860 circa.

– Dove? nelle saccoccie dei cittadini, s’intende; son dieci, son dodici, son quindici milioni? Ebbene; i decurioni aprono un prestito, e giacché sento che tanti e tanti temono sempre di non poter impiegare il danaro con sufficiente sicurezza, qual ci può essere garanzia più valida della città stessa? Ma di ciò non mi voglio impacciare io. Molti sono i mezzi per erogar danaro; e purché ci sia la buona volontà, e il buon accordo e la fermezza, la questione del danaro… a voi parrà ch’io dica una sciocchezza… ma la questione del danaro è ancora l’ultima. Ed ecco là che sorge gigante la prova perpetua di quel che dico. Mancavano i danari due anni fa, quando tutti gli architetti strepitarono a favore della guglia e ottennero il loro intento, e il padre Frisi alla testa di pochi altri voleva la facciata? No, ma mancava il buon accordo. Mancavano i danari nel 1656, quando sorsero tante dispute sui tre disegni presentati? anche allora era il buon accordo che mancava, e segnatamente nella schiera degli uomini dell’arte; perché, come può darsi che i migliori architetti, almeno i più famosi, e tra gli altri anche Lorenzo Bernini 〈3〉, lodassero quella ridicola bomboniera dell’architetto Castelli; e tutti poi si gettassero addosso inviperiti al progetto del Buzzi? Or che n’è derivato? Gli uomini della scienza e dell’arte protestarono. Ma l’occhio che vuol la sua parte fece sì che i fabbricieri e il capitolo e i decurioni stessero per il Buzzi, e adottassero il suo progetto. Ma tanto per venire a’ patti coi pregiudizi, lo corressero in varie parti, e più e peggio dove c’era il pensiero più bello e più splendido. Ed ora ecco lì… due piloni meschini che fanno sperar pochissimo dell’avvenire di questa facciata, la quale allora fu continuata di mala voglia perché la fabbriceria non era soddisfatta, e rallentò le operazioni colla speranza forse che il tempo correggesse gli spropositi. Ma ci vuol altro…

– Tu dici benissimo, – osservava un altro, – e giacché si parlava di piazza, se io fossi quello che comanda e che paga… il mio primo pensiero sarebbe rivolto alla piazza appunto, e farei sospendere tutti gli altri lavori. Un gran portico tutt’all’ingiro, e che girasse la più grande area possibile.

– Allora, mio caro, comincerebbe subito l’opposizione, perché se anch’io fossi quello che comanda e che paga, farei di tutto perché non andasse il tuo progetto.

Rione Rebecchino e Coperto dei Figini (col Duomo di Milano alle spalle di chi guarda) in una foto di anonimo, 1865 circa.

Quegli che, dopo aver appoggiate le parole del commensale, che, a quanto pare, rubava all’ozio quotidiano qualche ora a pigliarsela calda pei progetti architettonici della città di Milano, si sentì, a titolo di ringraziamento, da lui così crudamente contraddetto:

– Ma perché, – disse, – tu saresti un mio oppositore?

– Perché piuttosto che vedere un grande spazio tutto circondato da portici uniformi con edifizi tutti d’uno stile e tutti d’una medesima altezza, mi accontento della piazza che vedo adesso.

– Sarà benissimo che tu abbia ragione… ma se non io, c’è la piazza di San Marco di Venezia che ti dà torto da quasi tre secoli, e c’è la piazza di San Pietro a Roma che te lo dà da cento anni.

– Domando mille perdoni, ma la piazza di San Marco è sempre là invece e a darmi ragione; in quanto poi a quella di San Pietro, son ben contento ch’essa mi dia torto. Essa è l’opera più assurda del Bernini; basti il dire che, passeggiando sotto i portici, ad ogni momento fugge di vista il tempio per cui la piazza fu fatta.

– Lascia da parte la forma ellittica, ed è subito tolta l’assurdità.

– Sì… in quanto alla vista del tempio; ma resterebbe però sempre, invece d’una piazza, un gran cortile quadrato, che può parere anche un cimitero.

– Torno a rammentarti la piazza di San Marco.

– Bisogna distinguere, caro mio.

– Distinguiamo pure. Non ho niente in contrario.

– Dunque è da considerare che, quando si dice piazza di San Marco, l’immaginazione corre subito al suo quadro totale; vale a dire all’unione della piazza colla piazzetta, la quale, siamo sinceri, è quella poi che fa le spese di tutto.

– Come fa le spese di tutto?

– Sì, perché se non ci fosse la piazzetta, ti regalo la piazza, che per me è davvero un cortile, grandioso, vasto, splendido, ornatissimo, ma sempre un cortile, e guai, dico, se non ci fosse la piazzetta a darci vita.

– Ma che cosa ci vuole per te, affinché una piazza debba essere una piazza?

Piazza San Pietro a Roma in una foto aerea di Fedele Azari, 1920 circa (www.laboiteverte.fr).

– Prima di tutto che non sia chiusa, vale a dire, che manifestamente presenti gli sfogatoi e gli sbocchi alle altre parti della città; in secondo luogo che offra la maggior varietà possibile tanto negli stili, quanto nelle elevazioni, quanto nell’indole degli edifizi ond’è determinata.

– La confusione di Babele, in una parola; va benissimo.

– Mi pare, caro mio, che tu prenda la piega di spropositare.

– Bada che ho viaggiato, e ho buona memoria, e ho tutte le piazze d’Italia in testa e ho sempre avuto una certa inclinazione per l’architettura.

– E nemmeno io posso dire d’esser sempre rimasto a Milano, e se ti cito San Pietro e San Marco, vuol dire che li ho visti; in quanto poi al resto, se tu sei amico dell’architettura, me ne congratulo tanto; ma anch’io schicchero, così per passare questi giorni lunghi, qualche quadruccio di prospettiva sotto la direzione del Bibiena 〈4〉, che ha ingegno da vendere e fantasia da regalare al tuo Cantoni 〈5〉. Tutta la sua disgrazia sta che la moda or pare che abbia preso di mira il suo genere; e la peggior disdetta è che la moda non si fermi alle parrucche, ai topè, ai puff, ma pretenda di sedere in cattedra a dar le leggi dell’arte.

– Ma a che cosa vuoi riuscire con tutto questo…

– A ciò, che non basta né l’aver viaggiato né l’aver studiato, ma bisogna avere quel che si chiama buon occhio, buon gusto e criterio.

– E tu sei così riccamente provveduto di queste tre cose, che per gli altri non è rimasto indietro nulla. Anche questo vuoi dire?

– Non pretendo tanto; ma mi viene bensì qualche assalto di superbia quando mi trovo in faccia ad uno il quale mi dice che la varietà ha per conseguenza la confusione; e che ignora quel gran principio dell’arte vera, e quel segreto con cui il genio, e senza incomodare il genio, anche l’ingegno riesce a colpire di meraviglia gli osservatori; ed è quello appunto di saper far sì che l’unità trionfi nella varietà; questo è il problema da sciogliere.

– Ma spiegati meglio.

Piazza San Marco a Venezia in una foto aerea di Fedele Azari, 1920 circa (www.laboiteverte.fr).

– Mi spiego subito… e mi spiego pigliando per punto di appoggio precisamente la piazzetta di San Marco. Perché tutti i forestieri d’ogni paese, d’ogni generazione, d’ogni levatura, sono costretti a confessare che in quell’aggregato d’edifizi è il trionfo dell’architettura, e che forse in nessuna parte del mondo può trovarsi una scena più meravigliosa di quella che si presenta a chi approda sulla scalea del molo della piazzetta di San Marco? perché appunto trova l’unità nella varietà. A destra il palazzo Ducale del Calendario; vicino ad esso le prigioni del Da Ponte, dirimpetto l’edificio della libreria del Sansovino; vicino a questo il palazzo degli uffizi. E se dal primo, dirò così, sipario, si spinge l’occhio oltre le colonne di Todero e del Leone, ecco la basilica di San Marco a dritta colle sue cupole bisantine, ecco la torre dell’orologio di fronte e un brano delle Procuratie nuove de’ Lombardi. Nientemeno che sette edifici, sette stili, sette varie altezze, e una schiera d’architetti di tempi diversi e di diverse scuole che vi portarono il vario contributo della loro ricca fantasia. Ora, se invece di tutte queste cose non si vedesse che un portico lungo ed ampio a tiro d’occhio, lo spettatore sarebbe già addormentato prima di avere il tempo d’andar in entusiasmo.

– Lo credi tu?

– Lo credo benissimo perché ciò mi accadde precisamente a Roma, stando sulla piazza di San Pietro.

– Ora sentiamo che cosa faresti tu se la cassa pubblica avesse il ghiribizzo di vuotarsi tutta per il piacere di nominarti architetto della gran piazza del Duomo; perché bada che questa piazza per esser degna del tempio bisogna che giri un’area immensa, e che però dovrebbe andar giù tutto il Coperchio de’ Figini 〈6〉, tutta quest’isola del Rebecchino 〈7〉; e si dovrebbe lavorar di martello fino alla Dogana 〈8〉, demolire il corpo delle case che dividono la piazza de’ Mercanti da quella del Duomo.

Piazza Duomo a Milano in una foto aerea di Fedele Azari, 1920 circa (www.laboiteverte.fr).

– Se questo fosse, tanto andrebbe per la piazza a portici uniformi, come per la piazza a varietà d’edifici. Ma non è così, caro mio, ed è precisamente coll’idea del variare stili e altezze e indole d’edifici, e col gran segreto dei giuochi prospettici che non è necessaria tant’area; perché coll’artistica illusione della varietà, l’occhio crede sempre di girare uno spazio infinitamente maggiore del vero. Del rimanente, se fosse indispensabile quello che tu dici, il miglior architetto della piazza del Duomo sarebbe il parco d’artiglieria del re di Prussia. Ma stando a quel che io dico e che dicea appunto il Bibiena, fa’ in modo di rendere regolare la piazza, fa’ che la facciata del Duomo si metta d’accordo col suo asse, e passeggiando sotto agli archi de’ vari edifici si vedano i fianchi del tempio. Fa’ scomparire quest’isolotto, e innalza da questa parte due corpi di diversa architettura: uno greco romano puro, per esempio, sormontato da statue che fanno sempre effetto con poco; l’altro più basso, più gentile, con dei portici leggieri bramanteschi; lega i due edifici con un terrazzo, perché così di sopra e di sotto appaia la fuga delle altre contrade, con che si ottiene d’ingrandir la piazza all’occhio; innalza dirimpetto al Duomo qualche edificio con quello stile che più ti garba, ma il di cui organismo sia tale che sembri come a traforo, con fughe d’archi e di colonne nella base, con opportuni interrompimenti nelle elevazioni onde appaiano così dalla lontana, e quantunque per isghembo, i fastigj dell’archivio e della torre dell’orologio della piazza de’ Mercanti; allora la piazza de’ Mercanti, senza accorgersi, verrà in aiuto di questa; demolito poi il Coperchio de’ Figini, fa’ in modo che in quel lato sorga qualche palazzo a servizio di pubblici uffizi, la di cui architettura, per esempio, somigli, sei stato a Mantova?

– Sì.

– Bene, al palazzo Ducale di Mantova. Per introdurre poi de’ cambiamenti, fa’ che il palazzo sia come diviso in due ale, e che la parte di mezzo sia una galleria ad ampi ed alti finestroni, i quali rendano come trasparente l’edificio, ché in tal maniera a suo tempo, anche la luna potrà venire in soccorso dell’architettura. I fianchi del Duomo finalmente sieno illustrati qui dal palazzo Ducale come sta, sebbene invochi un compiuto ristauro; là, da qualche altro palazzo che abbia una fronte molto ornata. A questo modo abbiamo anche il vantaggio, di poter fare tutto a poco a poco, e senza che si stanchi il pubblico nell’aspettazione di veder compiuto un sistema unico di costruzione, che per la sua natura può stancar la pazienza di più generazioni.

Duomo di Milano e rione Rebecchino in una foto di anonimo, 1870 circa.

– A dire la verità, non afferro bene quest’ultimo tuo pensiero.

– Voglio dire che, se venisse adottato un progetto sontuoso di una piazza, per esempio, come tu hai detto, tutta a portici uniformi e ad elevazioni eguali, subordinate ad un’idea sola architettonica, finché l’opera tutta quanta non è condotta a compimento, le generazioni che ne vedono il principio e la lenta continuazione avranno sempre innanzi agli occhi qualche cosa che li disgusta. Col mio pensiero invece dei molteplici ordini d’edifici, quello con cui si dà avvio alla piazza può essere finito in breve tempo; e presentando un tutto armonico e compiuto in sé stesso, soddisfa appieno quelli che hanno avuto il merito d’innalzarlo, ed è come un compenso dell’opera loro. Ma questo è nulla; c’è un altro vantaggio ben maggiore: c’è che sulla piazza, potendosi innalzare più opere di varia architettura e di varia sontuosità, qualche ricco privato potrà sentir la tentazione di sfoggiarvi la sua ricchezza e il suo buon gusto; e l’esempio provocar l’imitazione; e la cassa cittadina venir così in gran parte risparmiata per la spontanea concorrenza dell’oro privato; con che si otterrebber nel tempo stesso due intenti: l’uno di render la piazza più magnifica mettendo in lizza le gare; l’altro di ridurla a compimento nel più breve tempo possibile. Or che te ne pare?

Demolizione del rione Rebecchino in una foto di anonimo, 1875.

– Che bisogna aver la fantasia molto riscaldata per poter fare di questi conti.

Or lasciando che questi due s’arrabattino tra di loro, noi raggiungeremo il carrozzone di casa V…, senza entrar arbitri in codesta questione, solo dicendo a coloro i quali fossero nemici delle piazze aperte ed a varietà d’edifici, che possono consolarsi pensando che il prolisso interlocutore in quella notte de’ banchetti era esaltato dai vapori della cena; quelli poi che fossero del suo parere si rallegrino pensando che le lucide cene sono eccitatrici mirabili di fantasia, senza della quale non si fa mai nulla di grande nelle opere dell’architettura.

〈1〉 Francesco Castelli (?-?), Francesco Maria Richini (Milano 1584-1658), Carlo Buzzi (Varese 1585-1658), architetti italiani, autori di tre diversi progetti per il rivestimento della facciata del Duomo di Milano. Il secondo e il terzo rivestirono anche, in successione, la carica di Architetto della Fabbrica del Duomo [ndr].

〈2〉 Paolo Frisi (Melegnano 1728-Milano 1784), matematico, scienziato ed ecclesiastico italiano [ndr].

〈3〉 Lorenzo (Gian Lorenzo) Bernini (Napoli 1598-Roma 1680), scultore, architetto e scenografo italiano [ndr].

〈4〉 Antonio Luigi Galli da Bibiena (Parma 1697-Milano 1774), scenografo, architetto e trattatista italiano [ndr].

〈5〉 Simone Cantoni (Muggio 1739-1818), architetto italiano [ndr].

〈6〉 Coperchio (Coperto) dei Figini: edificio porticato antistante il Duomo di Milano, costruito nel 1464 da Guiniforte Solari su commissione di Pietro Figino, ed abbattuto nel 1864 [ndr].

〈7〉 Rebecchino: rione antistante il Duomo di Milano, abbattuto nel 1875 [ndr].

〈8〉 Dogana: edificio situato in prossimità di piazza del Duomo, oltre il Rebecchino, in corrispondenza dell'attuale via Dogana [ndr].

Sopra, in alto: Orazio Costante Grossoni, Ritratto di Giuseppe Rovani (particolare), 1909, bronzo, cm. 86 x 46 x 52, Milano, Museo di Milano. Sotto: piazza Duomo a Milano (con lo scorcio di Palazzo Reale e degli edifici demoliti per fare spazio all'Arengario) in una foto di anonimo, ante 1936.

 

 

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