Convertirsi a un nuovo credo non è mai stata operazione semplice e lineare. Sulla carta, ogni conversione avviene in nome di un’apertura: a un Dio, a una filosofia, a un modo di vita. Sulla carta, appunto. In realtà, sin dai tempi in cui il cristianesimo iniziò a soppiantare le divinità pagane, il fenomeno della conversione andava di pari passo con quello dell’intolleranza, della negazione delle proprie stesse origini. Il pagano appena divenuto cristiano era spesso più intransigente, nel perseguitare gli ex correligionari, dei cristiani di vecchia data. “Adora quel che hai bruciato, brucia quel che hai adorato” (sono le parole con cui il vescovo Remigio battezzò il re franco Clodoveo) potrebbe essere l’epitome di tutte le conversioni, con l’eccesso di zelo terroristico che spesso le contraddistingue.
Nel secolo XX, anche il dibattito artistico assume i crismi tipici della polemica politico-religioso-ideologica. I movimenti si chiamano avanguardie, gli artisti e i critici militano. Dunque, la creazione di un nuovo schieramento o il passaggio da uno schieramento all’altro non può che avere, appunto, le sembianze della conversione o, inversamente, del tradimento. Se ci si può convertire, allora si può anche essere scomunicati, additati al pubblico ludibrio, essere fatti oggetto di anatema.
In Ornamento e delitto Loos condensa tutti questi elementi rituali in una forma intimidatoria che, come abbiamo già accennato, si ritroverà più avanti, e con implicazioni ben più serie, nella propaganda culturale messa in campo dal totalitarismo nazista. Alla creazione di un capro espiatorio generico, ad ampio spettro – il “ritardatario” dedito alla degenerazione ornamentale – Loos fa ora seguire la creazione di alcuni capri espiatori eccellenti, con tanto di nome e cognome. E chi potrebbero essere costoro se non gli esponenti dell’Art Nouveau, rei di avere generato una nuova, fin troppo rigogliosa fioritura decorativa?
Loos fa tre nomi: Henry Van de Velde, Otto Eckmann e Joseph Maria Olbrich. Ma per la proprietà transitiva, il suo elenco potrebbe allargarsi al meglio dell’arte internazionale a cavallo tra otto e novecento. Qualche esempio: architetti (Guimard, Mackintosh, Basile, Hoffmann, Wagner, Horta, Gaudì), grafici (Beardsley, Mucha, Moser), pittori (Klimt, Hodler, De Carolis, Vrubel’, Bonnard, Khnopff), scultori (Bistolfi, Maillol, Wildt), artigiani del vetro, del metallo, del legno (Gallé, Tiffany, Mazzucotelli, Gaillard).
Loos è facile profeta – al di là degli argomenti ormai risaputi su cui fa leva – anche nell’annunciare l’eclissi dell’Art Nouveau. Due guerre mondiali, col loro carico di distruzioni e di oblio, si incaricheranno infatti di oscurare per molto tempo la fama degli artisti impegnati in questo grande esperimento di arte decorativa pubblica e privata. Con in più l’aggravante, per gli artisti che fanno capo alla Secessione viennese e allo Jugendstil monacense, di trovarsi dalla parte di coloro che, le due guerre mondiali, le persero, perdendo con esse anche buona parte del prestigio e della visibilità che, a inizio novecento, Austria e Germania detenevano in Europa.
Solo a partire dagli anni sessanta-settanta del novecento, col riaffiorare di materiali e fonti documentarie troppo a lungo dimenticate e il ristabilirsi di alcuni indispensabili equilibri geopolitici, l’Art Nouveau (insieme ai movimenti suoi omologhi in sede artistico-letteraria, vale a dire il Simbolismo e il Decadentismo) uscirà dal limbo delle curiosità antiquarie per assurgere a questione nevralgica nella storia delle arti a cavallo tra i secoli XIX e XX. E comincerà a chiarirsi il destino ingrato di alcuni grandi centri di elaborazione culturale – da Vienna a Budapest a Monaco – che, dopo aver lungamente occupato il centro della scena, le vicende belliche avevano relegato in posizione defilata.
Ancor oggi, tuttavia, non è raro veder banalizzare l’Art Nouveau come una “premessa” a qualcosa che verrà dopo: i fasti del Disegno Industriale, il Movimento Moderno in architettura. Esperienze, queste, che dell’Art Nouveau raccolgono (fraintendendole) solo le provocazioni più facilmente spendibili, ma quanto all’utopia di fondo che dovrebbe animarle falliscono miseramente, davanti al semplice strapotere dell’economia e della finanza. Ma torniamo ai tre nomi su cui Loos scaglia l’anatema antiornamentale: Van de Velde, Eckmann e Olbrich.
Si osservino i dati anagrafici. Il più anziano dei tre, l’architetto, pittore e grafico belga Henry Van de Velde (1863-1957), è anche quello che vivrà più a lungo. Prima di andarsene, egli avrà tutto il tempo di riflettere sul tempo trascorso e sulle molte utopie consumatesi. Scrittore e polemista di fama internazionale, fondamentale ponte di collegamento fra Arts & Crafts e Bauhaus, cioè sull’intero arco storico delle scuole d’arte applicata in Europa, Loos lo chiama evidentemente in causa per avvalorare la tesi che il nuovo teorico e profeta del rapporto arte-industria nel secolo XX è proprio lui, Adolf Loos, e nessun altro.
I due artisti di lingua e cultura tedesca – dunque effettivamente concorrenziali sulla piazza viennese – menzionati da Loos, sono il pittore e grafico tedesco Otto Eckmann (1865-1902) e l’architetto austriaco Joseph Maria Olbrich (1867-1908). Come si può notare, entrambi sono già scomparsi: Eckmann sei anni prima della pubblicazione di Ornamento e delitto, Olbrich, da tempo malato di leucemia, nello stesso 1908. E’ chiaro che Loos preferisce affondare i suoi colpi su chi non c’è più e non può controbattere né con le parole né con le opere. Mentre stende un velo di silenzio sui tanti colleghi vivi ed operanti, figli come lui della cultura Art Nouveau e Simbolista, che battono una strada diversa, ma non certo meno interessante, rispetto alla sua.
Dal più anziano Otto Wagner (1841-1918) a Josef Hoffmann (1870-1956), i colleghi e maestri austriaci di Loos sono infatti estremamente lucidi nel passare dalle soluzioni fiorite ed estrose della giovinezza alle soluzioni della maturità, più spaziate e razionali ma sempre impeccabilmente canoniche. E così facendo, aprono di fatto il capitolo dell’Art Deco e del Novecentismo, al cui interno spiccano nomi come l’italiano Marcello Piacentini (1881-1960), architetto di punta nell’Italia fra le due guerre, o il francese Auguste Perret (1874-1954), grande alternativa, decorosa e moderna insieme, ai cubi e ai parallelepipedi loosiani che sono la sigla di Le Corbusier.
Tornando a Wagner e Hoffmann, limitiamoci a considerare, del primo, l’edificio della Banca postale imperial-regia di Vienna (1904-06); del secondo, il Sanatorio di Purkersdorf, nei pressi di Vienna (1904-06), opere quasi coeve alla pubblicazione di Ornamento e Delitto, per notare come sia possibile ribattere alle sfide della modernità e, al tempo stesso, ai paradossi opportunistici di Loos. Le due costruzioni sono assolutamente paragonabili, per requisiti di funzionalità ed aggiornamento tecnologico, all’Edificio Goldmann-Salatsch di Vienna (1910-11), manifesto della nuova architettura di Loos. Ma a differenza di questo incorporano (in forme estremamente leggere, “moderne”, da leggersi in filigrana) tutta la disciplina costruttiva del decoro in architettura, che è disciplina delle forme studiate in rapporto allo spazio, al tempo e all’uomo, insomma al genius loci. E il genius loci austriaco, non lo scopriamo oggi, è più gotico che classico, guarda con un occhio all’occidente cattolico e protestante e con l’altro al vicino oriente musulmano e ortodosso. Lo si riconosce perfettamente nelle scansioni, nelle riquadrature e negli acuti cromatici che caratterizzano il lavoro di Wagner e Hoffman.
Quanto ad Olbrich (anche lui allievo, come Hoffman e Loos, di Otto Wagner), solo la morte gli impedì di esplorare nuove direzioni di ricerca. Se si esce dal geniale e fin troppo noto Palazzo delle Secessione di Vienna (1898) e ci si spinge fino a Darmstadt, in Germania, ci si imbatte nella Torre del matrimonio (1907), l’edificio panoramico che suggella prematuramente l’esperienza tedesca di Olbrich. Qui, quel Fascismo che tanto nuoce ancor oggi alla reputazione di Piacentini non c’entra nulla. Ma questo è già, e con vent’anni d’anticipo, un esempio di quello che da noi si chiamerà volgarmente “stile littorio”. O, più semplicemente, è vera architettura civile, dove la forma non ha ancora divorziato dal contenuto, la decorazione dal decoro.
Il fatto che Ornamento e delitto veda la luce, e non casualmente, mentre Olbrich esala gli ultimi respiri, la dice lunga sui suoi reali obiettivi culturali. L’epitaffio dedicato da Loos ad Olbrich fa il paio con il plauso all’operaio, “il quale – scrive Loos – è così sano che non è capace di inventare un solo ornamento”. Altri, evidentemente, provvederanno a inventare per lui. A pensare per lui.
In alto: da sinistra a destra, Josef Maria Olbrich, Franz Hohenberger, Koloman Moser e Gustav Klimt nel giardino di Fritz Waerndorfer a Vienna, 1899, foto © IMAGNO/ONB (Biblioteca Nazionale Austriaca). Sotto: Josef Hoffmann, sedia per il Café Fledermaus, 1906 circa, produzione Jacob & Josef Kohn.