Andando oggi per mostre, capita spesso di notare che le didascalie vengono collocate in maniera stranamente dislocata rispetto alle opere a cui si riferiscono. A volte le troviamo raggruppate tutte insieme in un solo pannello, in modo da riflettere, topograficamente, la disposizione dei lavori appesi alla parete o sparsi sul pavimento. Ma possono anche andare a piazzarsi su una vicina colonna, o magari verso il basso, sotto il ginocchio, o altrove rispetto alla normale portata dello sguardo. Succede anche di non trovarle affatto.
Ci sono mostre che sembrano cacce al tesoro. Entrando, ci viene consegnata una piantina numerata e, tenendola in mano, ci mettiamo a cercare la corrispondenza tra le opere e i titoli. Oppure, stanchi di fare la parte di Pollicino, ci limitiamo a guardare qua e là, insieme agli altri fratelli e sorelle che come noi vagano nel bosco. Tanto l’uscita è sempre indicata con chiarezza, perché l’emergenza non ammette voli pindarici.
Non è facile indovinare le motivazioni di questa tendenza. Una è senz’altro l’iperspecialismo, lo spezzettamento delle competenze curatoriali in mille rivoli (allestimento, luci, informazione, percorsi didattici, sicurezza…) che, come altrettanti veti incrociati, oscurano l’opera, riducendola a un pretesto. Ma vi è anche un sentire diffuso: il senso delle operazioni espositive è, sempre più, quello di proporre accostamenti fra tempi e luoghi diversi (non importa quali), fra oggetti artistici e oggetti della vita di tutti i giorni, di creare dispositivi concettuali in cui l’opera rinuncia a una parte della propria individualità, mimetizzandosi e, in qualche misura, scomparendo.
In alto: Il posto rimasto vuoto dopo il furto della Gioconda al Louvre nel 1911 (www.imago-arts.org).