La decorazione architettonica, così come ce l’ha consegnata la storia dell’arte dei secoli XV-XIX, è una vera e propria lingua. Col termine “lingua”, gli studiosi designano un linguaggio che, fra altri omologhi, assurge al ruolo di lingua ufficiale di uno Stato, facendo retrocedere gli altri al rango di “dialetti”. Ne discendono, sul piano culturale, implicazioni rilevanti, che normalmente si tende a ignorare. Entriamo subito nel merito: se la decorazione è una lingua, cosa ne consegue sul piano operativo?
L’architettura ha, per così dire, i suoi dialetti tradizionali, legati alle varie tipologie costruttive: lignee, lapidee e in laterizio. Quest’ultima tipologia, vuoi per la prevalente diffusione nelle costruzioni urbane, vuoi per la caratteristica alternanza di pietra e mattoni in facciata (pilastrate e architravi delle finestre, fascioni marcapiano, eccetera), venne utilizzata dagli architetti rinascimentali come base per le loro ricerche legate al recupero della lingua architettonica classica. Paraste, capitelli, modanature, fregi, il tutto proporzionato e composto seconde le regole desunte da Vitruvio e dai ruderi romani, furono perciò le “parole” della nuova lingua, sovrapposta al vecchio linguaggio dell’edilizia in mattoni. Venne così elaborata, nel periodo che corre dal Serlio al Palladio, la trattatistica concernente il patrimonio grammaticale e sintattico su cui, nei secoli successivi, si fondarono tutte le scuole di architettura che, da San Pietroburgo a Washington, declinarono la lingua negli edifici che oggi conosciamo. La lingua architettonica era anche lingua della decorazione, perché, a differenza di quelli usati nella decorazione romanico-gotica, i suoi “vocaboli” – e cioè colonne, capitelli, triglifi, eccetera – prescindevano dalle strutture costruttive, cosicché li si poteva usare a posteriori, sia per decorare edifici nuovi ma ancora “al grezzo”, sia per riqualificare quelli esistenti.
Chiarito cosa si debba intendere per “lingua”, occorre ora capire cosa ne sia degli altri linguaggi nel frattempo retrocessi a dialetti. Innanzitutto, vi è da osservare che la differenza fra lingua e dialetti non è necessariamente funzionale (spesso infatti i dialetti rimangono più efficaci nell’uso corrente), ma bensì legale: è con la lingua, e solo con essa, che uno Stato scrive i propri documenti ufficiali. Questa constatazione apparentemente ovvia determina conseguenze irreversibili sul piano culturale. Ogni linguaggio, per quanto articolato ed efficace, nel momento in cui viene retrocesso a “dialetto”, rimane automaticamente tagliato fuori dalla ricerca scientifica e culturale in fieri. Conseguenza di ciò è che chi lo parla, pur godendo del “quieto vivere in provincia”, resta totalmente impossibilitato ad accedere ai grandi temi culturali a lui coevi, e ad interagire con essi. Si definiscono perciò “minori” le produzioni letterarie e musicali dialettali, a prescindere dal fatto che, in sé e per sé, possano essere interessanti ed oneste.
Tornando a noi: quale lingua si parla e si insegna oggi nel mondo dell’arte e, quindi, della decorazione? Chiunque, a qualsiasi livello, abbia oggi esperienza di “scolastica” artistica, non può fare a meno di constatare quale babele la scolastica dei linguaggi della modernità, tanto enfatizzata negli scorsi decenni come sinonimo di libertà espressiva, abbia generato. Gli sforzi attuali per trovare un comune denominatore, o esaltando la generica espressione individuale o, al contrario, eludendo ogni proposizione formale per fare ricorso ad un concettualismo retorico, stanno in realtà producendo qualcosa di molto simile ad un’afasia programmata. Quello della lingua è quindi il vero problema attuale, giacché una società pensa con la lingua con cui parla, e con essa elabora i concetti condivisi, tali da consentire una generale evoluzione culturale. Viceversa i linguaggi, i dialetti, i gerghi, gli slang, restano appannaggio della comunità che li usa, generando interesse solo da un punto di vista folklorico o etnologico.
Ripercorrendo le vicende artistiche degli ultimi secoli, appare chiaro che una lingua, buona o cattiva che fosse, la decorazione l’ha sempre avuta. Dal Rinascimento, cioè dal momento in cui venne rimessa in uso la lingua classica, fino all’Art Déco, la decorazione ha sempre operato, nel bene e nel male, su un’idea di lingua comune, usando i “dialetti”, cioè le tradizioni particolari, come arricchimento e “coloritura” della lingua ufficiale nelle sue declinazioni locali. Fu con il ‘900 e le sue drammatiche vicissitudini che il quadro cambiò radicalmente. In quel contesto, le principali culture egemoni esasperarono l’idea di palingenesi sociale, lanciando progetti di lingue totalmente nuove, a sostegno delle rispettive visioni del mondo. Vi è un abisso fra il progetto giacobino di rinnovamento sociale e il furore palingenetico dell’ “uccidiamo il chiaro di luna” futurista. Il primo produsse un morigerato Neoclassicismo, il secondo intervenne radicalmente sulla genetica del sistema linguistico, ponendosi a modello di tutte le avanguardie coeve e successive. Per quanto concerne in particolare il nostro settore, vi è anche da mettere nel conto che, da un lato, la cultura novecentesca sferrò in nome del modernismo un attacco senza precedenti alla lingua architettonico-decorativa classica, mentre, dall’altro, quest’ultima ebbe la sventura di venire vistosamente adottata dai regimi totalitari, con la damnatio memoriae che poi ne conseguì sul piano politico-culturale più generale.
Libertà incondizionata dell’individuo, espressione dell’io, celebrazione della tecnologia e del “nuovo”, sono stati gli utensili coi quali prima si è sfrondato l’albero della lingua classica, poi se ne è abbattuto il tronco. Raggiunto l’obiettivo ideologico – persa cioè la lingua tradizionale – il nodo storico è arrivato al pettine e si assiste ora al disperato tentativo di ratificare una nuova lingua, cercando di mettere insieme gli eterogenei assiomi modernisti di partenza. La disperazione nasce dal fatto che una lingua è uno strumento complesso. Essa ha bisogno di regole e di una scolastica, perché deve essere insegnata. Ma come fissare regole riguardo a ciò che nega a priori l’esistenza di regole? Come erigere a canone ciò che è programmaticamente arbitrario? Come fissare una scolastica in ciò che viene filosoficamente esaltato come pura espressione dell’io individuale? Inoltre la lingua è uno strumento comunicativo pienamente umano e non può basarsi sui linguaggi frammentari, settoriali, imposti dai semilavorati e dai nuovi materiali industriali, come nella proposta razionalista. Per fare un esempio: con il linguaggio novecentesco dell’astrazione lirica non si possono esprimere i concetti che caratterizzano quella geometrica, ed entrambi escludono programmaticamente la possibilità della figurazione mimetica, che rimane quindi un altro linguaggio. A loro volta, tutti questi linguaggi sono altra cosa rispetto a quelli che, prendendo le mosse da Duchamp e dal dadaismo, altro filone importante della cultura novecentesca, negano programmaticamente l’opera.
È sempre più evidente che, fra tutti i linguaggi sperimentali proposti dalla modernità, nessuno ha oggi la caratura per assurgere davvero a “lingua”, anche perché vi è un’ulteriore aggravante: in quanto strumenti “bellici”, eminentemente polemici, molti di essi risentono di una elaborazione estemporanea, velleitaria, e sono perciò intrinsecamente impossibilitati, per la mancanza di coerenti regole grammaticali e chiare strutture sintattiche, a divenire lingua. Se questo è il problema, qual è la soluzione? Un linguaggio s’impone sugli altri come lingua, o per coercizione, a seguito di guerre e invasioni, o per intrinseca, migliore funzionalità rispetto ai propri omologhi. Le avanguardie novecentesche pensavano di risolvere la questione nella prima maniera, ma per fortuna così non è stato, ed oggi non rimane che la seconda opzione.
Cosa si intende per “intrinseca migliore funzionalità”? Chi è portatore di un linguaggio e lo vuole candidare a lingua, per prima cosa deve testarlo sui livelli superiori della cultura. Non vi è dubbio che esso funzioni bene sul piano della comunicazione corrente, ma regge la composizione poetica? Se sì, reggerà anche la proposizione teologica? E quella scientifica? La complessa vicenda letteraria che, da Dante Alighieri fino a Galileo Galilei, fece assurgere il volgare al rango di lingua, dimostra che un linguaggio che voglia guadagnarsi sul campo i gradi di lingua, deve vincere molte battaglie. Ma vi è una seconda operazione da condurre in parallelo: l’acquisizione della terminologia scientifica pertinente. Per ciò che concerne il nostro settore, Vitruvio ce ne fornisce un fulgido esempio: nel suo De Architectura, egli latinizza i concetti fondanti dell’architettura greca, ed acquisisce così come sono i termini tecnici intraducibili, quali “simmetria”, “triglifo”, “metopa”. Gli architetti rinascimentali compiono la stessa operazione eleggendo a propria lingua il volgare: essi infatti volgarizzano i concetti latini e, al tempo stesso, fanno propri i termini tecnici non traducibili, quali “cimasa”, “cimbia”, “proporzione”, eccetera.
Il rango di lingua va quindi conquistato sul campo, vincendo le battaglie, che nell’arte riguardano il senso e il decoro e, parallelamente, dotandosi di opportune armi, cioè i termini scientifici pertinenti al livello culturale ed al settore disciplinare. Si potrebbe concludere citando con sconforto il fallimento dell’arte “privata” novecentesca nel momento in cui, oggi, la si vuole proporre come “pubblica”. Ma se è vero quanto detto fin qui, ognuno può trarre da sé le proprie conclusioni.
In alto: Joze Plecnik, Corte interna del Teatro Krizanke, 1952-56, Lubijana. Sotto: Daniel Libeskind, Shang Shidong Industrial Museum, 2014, Wuhan.