Come s’è visto nei precedenti articoli dedicati a temi, tecniche e problemi della decorazione murale genovese, nell’ormai lontano 1982 il convegno Genua Picta aveva focalizzato l’attenzione sul recupero dei grandi apparati decorativi appartenenti ai più antichi e prestigiosi palazzi nobiliari della città. Prerequisiti di ogni azione concreta risultavano essere, all’epoca, le teorie conservative contenute nella Carta del Restauro, il supporto offerto dalla scienza e dalla tecnologia, l’accurata documentazione storica e filologica. In tale contesto, il ruolo di interlocutore privilegiato – per non dire unico – spettava al restauratore o, in alternativa, ad un tecnico di formazione non necessariamente artistica. In altre parole, tutta la partita si giocava tra illustri studiosi e non meno prestigiosi tecnici del restauro, mentre ogni eventuale aspettativa od obiezione dei comuni cittadini veniva lasciata cadere nel vuoto.
L’esperienza storica passata dimostra che la compresenza di grandi autori e grandi committenti è essenziale alla storia dell’arte. Analogamente, la storia dell’artigianato vede i migliori esecutori e i più importanti committenti parlare, nel corso dei secoli, una stessa lingua, dettata da comuni intendimenti e finalità estetiche. Prima del costituirsi dell’odierna cultura di massa e della babele di sottoculture ad essa riconducibili, vi era la cultura popolare: ovvero un insieme organico di tradizioni, senso comune e – quel che qui più interessa – senso del decoro. Le generazioni potevano così trasmettersi un sistema di consuetudini che tendevano ad assicurare il raggiungimento sia dei grandi obiettivi della vita, sia di quelli, più modesti ma essenziali, della quotidianità.
Il secolo delle due guerre mondiali e delle avanguardie artistiche ha profondamente mutato e, per molti aspetti, sovvertito questo quadro d’insieme. Leggi, regolamenti, lo stesso senso comune scandiscono ancora, nel loro progressivo evolversi, le nostre giornate. Ma ciò che rimane del decoro in linea generale e, di conseguenza, del manufatto decorativo, rivela cadute e manchevolezze. La rottura col passato prodottasi, in forme via via più complesse e ramificate, nel secolo scorso, e la conseguente massificazione e industrializzazione della cultura, hanno dato luogo ad un profondo divario tra addetti ai lavori e non. Questo divario è ben esemplificato dagli esiti del clima Pop dilagante nella seconda metà del secolo XX. Apparentemente semplice e accattivante, la Pop Art intercettò in primo luogo – a dispetto del suo nome – il consenso delle élites che erano in grado di acquistarla e/o apprezzarne le superfici nitide e vivaci. Le stesse valenze genericamente “decorative” di questo movimento (come di altri del secondo dopoguerra) diedero inizio, così come per la musica, ad una vera e propria industria della decorazione o, meglio, di una pseudo-decorazione che amplificava equivoci e inesattezze ormai cronicizzati.
Anche la formazione scolastica ed universitaria ha fatto la sua parte nel disorientare l’opinione pubblica, ponendo l’artista e il suo lavoro in una sfera “altra”, cristallizzata in una dimensione avulsa dalla vita reale: un semidio che crea non si sa bene cosa e, spesso, perché. Le questioni inerenti le tecniche e i materiali sono pressoché ignorate e, con esse, quella dimensione manuale e quotidiana attraverso la quale il lavoro si rende familiare, lasciandosi osservare e scoprire in tutti i suoi risvolti. Di qui una disinformazione crescente, ormai estesa anche al pubblico di livello culturale più elevato.
Nella stessa misura in cui, anziché rinnovare ed aggiornare il decoro in arte, puntava semplicemente ad abolirlo, il clima avanguardista novecentesco contribuì all’affermarsi di quella diffusa, spesso acritica insofferenza nei confronti degli stili del passato, di cui scontiamo oggi le conseguenze. Conseguenze avvertibili persino sul piano del senso comune, al punto che, negli anni del secondo dopoguerra, un termine come “Barocco” si era ormai talmente deteriorato da essere inteso quasi più solo come espressione gergale, indicante un oggetto o un comportamento di cattivo gusto. Ciò che presso le generazioni precedenti era stato un piacere quotidiano – la cornice floreale del quadro, quella architettonica della finestra, l’intarsio sul piano in legno di noce – presso quelle del novecento era diventato un peso superfluo, del quale liberarsi in fretta.
La stessa, crescente divaricazione determinatasi fra antico e contemporaneo, passato e futuro, ha fatto sì che il presente si modellasse sempre più in funzione di una vita intellettuale dominata dalle opinioni proprie di una ristretta élite di storici dell’arte, artisti, architetti, tecnici. Ecco allora che una pratica tipica del restauro novecentesco, come quella, ancor oggi diffusissima, di non reintegrare le lacune pittoriche più vaste, lasciando la parete dipinta alla mercé di zone bianche sparse qua e là, veniva di fatto a rivestire lo stesso ruolo che certi atteggiamenti ironici, spiazzanti e dissacratori giocavano nella fruizione dell’arte contemporanea. Ma se la sorpresa e lo spiazzamento sono in qualche modo ancora riassorbibili e recuperabili nel contesto dell’arte contemporanea, quando a destare lo stesso tipo di perplessità è il prospetto di un edificio acquisito ormai da secoli alla fisionomia della città e alla cultura visiva di chi vi abita, la lacerazione civica e culturale rischia di diventare traumatica.
Funzionari alle dipendenze di enti pubblici e committenti privati – i primi, allineati sulla teoria e la tecnica del restauro; i secondi, pressoché all’oscuro di ciò su cui realmente si fondano i mestieri dell’arte e tendenzialmente portati a sopravvalutare la figura dell’artista a tutto svantaggio di quella dell’artigiano – sono stati fin dall’inizio gli interlocutori di chi, come la scrivente, dopo essersi formata in Accademia, ha poi operato assiduamente e prevalentemente nel settore dell’artigianato artistico.
Per quanto riguarda gli enti pubblici, soprintendenze in primis, solitamente essi motivano le proprie decisioni con relazioni tecnicamente corrette, su cui vi è ben poco da eccepire. Dal canto loro, gli uffici municipali preposti al decoro urbano applicano regolamenti abbastanza generici, dedicati essenzialmente alla sicurezza, all’igiene e alla manutenzione ordinaria, mentre i piani del colore fanno perlopiù riferimento ai centri storici e a situazioni di particolare pregio, che già ricadono sotto la competenza delle soprintendenze. Dunque il soggetto più responsabile, per la capillarità della sua presenza sul territorio, delle sorti estetiche dell’intera comunità, è e resta quella clientela privata che, come si è detto, ha perso in tutto o in parte il senso del decoro, ovvero la cultura della “cosa giusta al posto giusto”.
Nel rapporto che si stabilisce tra questa clientela e il decoratore, l’equivoco più comune consiste nell’intendere la decorazione come orpello: cioè qualcosa che si applica con maggiore o minore eleganza ed armonia, ma che in ogni caso non intrattiene un rapporto profondo, strutturale, con l’oggetto, visto solo come mero supporto. In casi come questi, si vedono strutture decorative dai pesi e dai ritmi sbilanciati, troppo povere o troppo ricche o, ancora, stilisticamente in disaccordo con l’architettura. Un’altra frequente fonte di errore sta nella scelta dei colori. Spesso c’è la pretesa di posarli abbinandoli in maniera totalmente arbitraria, in ossequio a gusti e mode del momento, mutuati dai campi più diversi: dall’abbigliamento all’automobile all’arredamento.
Convegni, teorie accademiche, rivoluzioni e provocazioni artistiche possono ben poco in relazione al fatto che una parte preponderante dell’opinione pubblica naviga nel mare della domanda e dell’offerta, in una sorta di loop dove c’è poco spazio sia per la corretta conoscenza e applicazione della decorazione antica, sia per lo sviluppo di idee nuove. Negli ultimi decenni si è molto parlato della capacità di orientare il mercato: sarebbe questa la sola possibilità di azione per i consumatori consapevoli e responsabili, desiderosi di essere trattati come “persone”. In alcuni settori si è deciso di invertire la rotta, e la soluzione è stata individuata in un ritorno all’antico: ad esempio nell’industria agroalimentare, allo scopo di ottenere prodotti migliori sia per qualità che per sostenibilità ambientale. Questo modello virtuoso, che in materia di alimentazione ha già dato alcuni risultati, è tuttavia praticabile solo con l’apporto della scuola e dei media, indispensabili per diffondere sapere e consapevolezza.
A questo proposito, va segnalato un aspetto indubbiamente positivo dei social. Nella grande mole di materiali spesso inutili o discutibili che diffondono, essi veicolano anche un’apprezzabile quantità di brevi ma efficaci documentari, inchieste, interviste, riguardanti tecniche artigiane o dell’artigianato industriale, che sopravvivono ancor oggi o che, non essendo più in uso, rischiano l’oblio. Argomenti e titoli non si contano. Tra i molti soggetti trattati, si va dalla tecnica di produzione dei mosaici ceramici magrebini, alla stampa manuale su stoffa, alla coloritura marmorizzata della carta, a tanti altri spunti, antichi e moderni, degni della massima attenzione.
In alto: villa Saluzzo Bombrini, fine sec. XVI, Genova (www.finestresullarte.info). Sotto: locandina del convegno-esposizione "Genua Picta", Genova, 1982.