A dispetto delle sue furenti teorizzazioni ornatofobiche, il secolo scorso ha sviluppato nella pratica una autentica decorazione moderna. L’immagine dei quadrati di Piet Mondrian è presente nella nostra memoria sotto forma di copertine di riviste, bombolette di lacca per capelli e tappi di marmellata. A loro volta, gli stilemi dell’astrazione lirica derivata dall’insegnamento di Vasilij Kandinskij si possono agevolmente riconoscere negli arredi di bar, teatri e balere del secondo dopoguerra. Descrivere qui analiticamente le manifestazioni dell’uno e dell’altro tipo risulterebbe prolisso. Riteniamo più interessante, invece, cercare di indagare i principi generali che sono alla base di questi fenomeni, per arrivare, aiutati della distanza storica, ad un sintetico giudizio generale.
Il dato naturale ineludibile da cui bisogna partire è che, nelle arti figurative, la copia della natura è sempre bastante a se stessa, mentre la composizione astratta, tanto più se geometrica, rimanda sempre ad altro. Un disegno raffigurante un paesaggio o un essere vivente, per quanto stilizzato o mal eseguito, legittima sempre se stesso ai nostri occhi; una macchia o una sequenza di triangoli, invece, ci lasciano comunque insoddisfatti, perché alla stimolazione visiva non corrisponde a prima vista alcuna casella cognitiva. A meno che artista e fruitore non condividano un lessico simbolico che faccia corrispondere a quelle macchie, a quelle geometrie, un preciso significato.
Tale lessico simbolico è condizione necessaria di esistenza di tutti gli oggetti fabbricati ad arte, cioè secondo procedure motivate e durevoli. Si pensi ad una tipologia di tappeti geometrizzanti come i Kilim, laddove la tecnica esecutiva che, per sua natura, impone trame rigorosamente ortogonali, viene sublimata attraverso una serie di invenzioni compositive che ricollocano i vari segni in un repertorio simbolico condiviso, caratterizzante la specifica etnia che li produce. Ma si pensi anche, per altro verso, alla ceramica Raku giapponese, la cui apparente casualità allude alla cosmogonia scintoista. Se questo è vero, allora è anche vero che i parallelogrammi di Mondrian e le macchie in libertà di Kandinskij non avrebbero, in sé e per sé, alcun senso, se non fossero portatori di significati “altri”.
Senza dover qui richiamare la complessa vicenda del movimento teosofico e delle similari correnti esoteriche di inizio ‘900, non vi è dubbio che è in questa temperie che affondano le radici di tutte le esperienze astratte susseguenti, così come esse si sono cristallizzate e contrapposte nella polarità delle opere dei due capiscuola appena citati. Il punto di partenza comune alle due strade, pur stilisticamente divergenti, verso l’astrazione – quella “geometrica” e quella “lirica” – è nella convinzione che la “vera” realtà non consista nella pedante copia della natura, come suggeriva la modalità verista ottocentesca, ma nell’indagine sulle “strutture” o sulle “forze” che agiscono a monte, ovvero sui processi che stanno dietro ed oltre i fenomeni naturali visibili. In altri termini, “vero” sarebbe il divenire creativo della natura, non i suoi mutevoli esiti finali. Si potrà quindi parlare di arte come “ascesi”, e tale ascesi assumerà connotazioni più o meno mistiche a seconda delle intenzioni e delle poetiche individuali: si pensi, per fare solo un esempio, al celebre dipinto Quadrato bianco su fondo bianco di Kazimir Malevič.
Pur con tutti i limiti che le sono propri, la grande impresa dell’arte astratta novecentesca è stata quella di aver squarciato il soffitto positivista che il secolo XIX aveva innalzato sull’umanità, per tornare finalmente ad osservare, senza impedimenti di sorta, lo stellato cielo metafisico. Che ciò sia stata cosa buona e giusta lo testimonia proprio il seguito che i maestri già menzionati hanno avuto lungo tutto il secolo XX, e l’impiego dei loro stilemi nel campo della decorazione ne è un’ulteriore controprova. D’altro canto, però, il boom economico del secondo dopoguerra, con la sua vertiginosa crescita industriale, fece sì che tutta l’attenzione si concentrasse sull’icasticità e ripetitività del repertorio astratto-geometrico, proprio perché costituzionalmente affine alla nuova estetica imposta dall’uso massiccio dei semilavorati industriali.
Una nuova arte, quella della macchina, cominciava a prendere corpo. Toppe razionaliste andavano a ricucire lo squarcio apertosi sul soffitto positivista, e il tutto veniva ricoperto con un nuovo tetto: quello della fabbrica. L’astrazione geometrica divenne il simbolo della magnificenza della macchina, mentre l’astrazione lirica, ormai privata di sbocchi percorribili, dovette ripiegarsi su se stessa, divenendo l’espressione psicologica del disagio del singolo rispetto ad un contesto sociale claustrofobico. Questa è storia recente, ed è a questa eredità cui ci troviamo oggi a far fronte.
Attualmente, dal punto di vista della decorazione, l’astrazione geometrica rimane – sul piano squisitamente tecnico – la soluzione vincente nei decori per così dire “strutturali” (rivestimenti, prefabbricazioni eccetera), in quanto è la più affine ai sistemi standardizzati di produzione industriale. Più interessante sul piano emotivo è l’astrazione di tipo lirico, la quale sconta però una intrinseca difficoltà applicativa, tale per cui, in genere, è presente solo dove si possono usare sistemi di riproduzione a stampa. Sul piano estetico, entrambe le soluzioni dimostrano una palese obsolescenza: la prima porta con sé la noia dell’estetica del “laminato”; la seconda, il tedio dell’esternazione psicologica di cui è essa stessa lo strumento. Ma è sul piano artistico che il loro fallimento si palesa al massimo grado, stante la totale perdita di riferimenti culturali che affligge sia l’una che l’altra.
La contemporaneità, infatti, nel tentativo di uscire dall’impasse delle “bianche muraglie” teorizzate da Adolf Loos, propina o ebeti ripetizioni di pattern geometrici, buone solo per carta da regalo, o insulse textures, interessanti forse per camicie da balera ma improponibili in qualsiasi altro contesto. Nessuno oggi può pensare di celebrare alcunché attraverso l’astrazione geometrica e, dal canto suo, l’espressione dell’io di cui si era fatta alfiere l’astrazione lirica suona sempre più solipsistica ed autoreferenziale. Il fallimento del decoro contemporaneo non è quindi tecnico ma, piuttosto, culturale. Non deriva cioè da un problema di costi, com’era avvenuto per il decoro tradizionale in relazione alle necessità sociali dell’architettura moderna, ma da una totale mancanza di idee e di contenuti, contenuti che erano invece presenti nella decorazione moderna ai suoi esordi.
Crollate le “bianche muraglie”, cavallo di battaglia dell’estetica industriale del secondo dopoguerra, la contemporaneità non può ritornare alla figurazione naturalistica, la quale, dopo essere stata lungamente bandita, è oggi inutilizzabile, per l’intrinseco degrado dovuto ai tanti anni di permanenza in discarica. Le ricette figurative che vengono oggi proposte come decoro per superfici – le “bianche muraglie” divenute nel frattempo “degrado urbano” – rimangono una via di mezzo fra il decoupage ipertrofico e il surrealismo naïf, e non riescono ad essere convincenti né sul piano estetico, nonostante l’abilità di molti loro artefici, né su quello culturale, a dispetto delle numerose stampelle sociologiche con cui le si vuole sorreggere. Rimarrebbe la via dell’astrazione, ma né la sciocca celebrazione dell’efficienza industriale, né la banale esternazione soggettiva, possono bastare a renderla nuovamente percorribile.
Per l’arte si riapre oggi la stagione dei contenuti, i quali riguardano il cielo stellato della metafisica, cioè le questioni fondanti ed identitarie per i destini di una cultura. E cioè, in primis, i suoi principi cosmogonici e cosmologici, non le esternazioni ludico-terapeutiche dei singoli. L’artista è, oggi più che mai, la figura deputata alla ricerca dei contenuti culturali. Mentre la stessa cosa non si può dire del designer o dell’architetto contemporanei, nel momento in cui sono essi stessi a rinunciare, per loro esplicita dichiarazione, alla qualifica di “artisti”. Vi è però un problema: l’artista è tale solo se è in grado di elaborare contenuti culturali e veicolarli attraverso la propria opera. In caso contrario egli sarà piuttosto un millantatore, a prescindere dalle patenti ufficiali eventualmente rilasciategli dai vari centri deputati quali scuole, musei e gallerie.
In alto: Paul Klee e Vasilij Kandinskij in una foto scattata nel 1927 a Dessau, durante il loro periodo di insegnamento alla Bauhaus. Sotto: Vasilij Kandinskij, Studio di colore, quadrati e cerchi concentrici, 1913, acquerello e matita su carta, cm. 23,9 x 31,6, Lenbach, Stadtische Galerie.