Questo documentatissimo saggio, a firma di uno dei maggiori studiosi italiani delle avanguardie artistiche del secolo XX, non rientra nella tipologia di quelli a cui FD dedica normalmente le sue recensioni. Ma la brillantezza con cui Mondrian vi viene tratteggiato ne fa il testo ideale per comprendere appieno il ruolo esercitato dall’artista olandese, nel proprio tempo ed oltre di esso. Quindi non solo nel panorama della storia e della critica d’arte, ma anche sullo sfondo più ampio della cultura visiva, dell’antropologia, degli usi e costumi che caratterizzano l’approccio contemporaneo a tutte le accezioni del decoro, da quella architettonica ed urbanistica a quella che concerne la dimensione corporea e psichica dell’individuo. Insomma, il libro offre non solo un convincente ritratto di Mondrian nelle diverse fasi della sua ricerca matura, dagli anni ’10 alla morte avvenuta nel 1944, ma aiuta anche a capire in che modo il suo astrattismo neoplastico sia diventato un cifrario noto e diffuso su scala planetaria.
I lettori di questa rivista sanno bene che essa ha espresso e continua ad esprimere senza alcun timore reverenziale le proprie critiche nei confronti della concezione “acefala” (così ci è capitato più volte di definirla) impostasi nell’età del razionalismo e del funzionalismo e che, su questo piano, essa non fa sconti a nessuno. Diciamo allora che dalla sua postazione di pittore (rigorosamente pittore, e il libro lo testimonia, evitando di indulgere a troppo facili parallelismi col mondo dell’architettura e della progettazione in genere, che vengono chiamati in causa solo laddove i rapporti reciproci hanno una più che valida base documentaria), Mondrian vuole volare alto. Molto più in alto rispetto alla spirale degenerativa che una certa concezione minimalista e riduttivista – concezione che è alla base anche della sua poetica – innescherà via via nel panorama oggettuale ed architettonico novecentesco. A questo proposito, Finizio non manca di sottolineare tutte le difficoltà e le delusioni cui l’artista andò incontro quando volle dare al proprio lavoro una destinazione pubblica, inserita nello spazio-tempo della casa, della strada, della città. Eppure, sulla carta, il dialogo con la generazione capeggiata dai Gropius e dai Le Corbusier avrebbe dovuto essere facile, addirittura scontato. Viene da pensare – l’autore non lo dice, ma varie sue considerazioni a margine lo lasciano intendere – che l’omogeneità generazionale, di per sé indubbia, non riuscisse a penetrare fin dentro la spiritualità più profonda del lavoro di Mondrian.
Una cosa almeno è certa: nel suo utopismo forse ingenuo, talora sconfinante in un ascetismo e in un intellettualismo fin troppo algidi, il pittore olandese non avrebbe mai sottoscritto la tesi cara a tanti suoi colleghi architetti, Loos in primis, secondo la quale tra architettura ed arte vi era una scissione ormai incolmabile. E che proprio prendendo atto di questa scissione si doveva di lì in poi vivere ed operare. Nel suo rifiuto di separare l’arte dalla tecnica, l’estetica dall’etica, egli continuò per tutta la vita a somigliare, nel chiuso del suo studio, ad un maestro del rinascimento più che ad un suo contemporaneo. Col loro costante, quasi insostenibile biancore punteggiato di pochi quadri e suppellettili, i vari atelier in cui l’artista lavorò tra Parigi, l’Olanda e New York sono più che mai l’hortus conclusus, l’opera d’arte totale in cui tutte le tensioni che attraversano il suo lavoro si stemperano e si acquietano. Magari solo per pochi attimi immortalati in una fotografia, attimi però di grande intensità, che Finizio riesce felicemente a cogliere e a far parlare.
Il libro: Luigi Paolo Finizio, Piet Mondrian, il chiaroveggente, Europa Edizioni, Roma 2016, pp. 369, euro 18.
In alto: Piet Mondrian, Broadway Boogie-Woogie (part.), 1943, olio su tela, cm. 127 x 127, New York, Museum of Modern Art. Sotto: la copertina del libro.