Nella lingua italiana, spesso e volentieri l’uso di termini anglosassoni permette di sottrarre le parole alle loro aree semantiche tradizionali, impedendo ogni seria valutazione in merito alle cose di cui si sta parlando. Se dico Arte di strada, il riferimento semantico è all’arte da fiera di paese, la cui figura deputata è il saltimbanco, artista forse, ma sicuramente cialtrone, perché se non cattura le simpatie dei passanti il suo cappello non si riempie di monete. Se invece anglicizzo la definizione in Street Art, ho un “piede di porco” con cui aprire un varco nello steccato dell’accattonaggio ed accedere così all’arte colta e ai suoi prestigiosi e lucrosi luoghi deputati. In musica, tutti distinguono la differenza fra Salvatore Accardo ed un violinista girovago e nessuno penserebbe, solo coniando la definizione Street Music, di organizzare a beneficio del secondo dei due un concerto alla Scala, accompagnato magari da qualcuno che canta sotto la doccia (Shower Singer, potrebbe essere la definizione).
Questo è il primo paradosso che riguarda le arti figurative, duramente colpite dalle cannonate della Pop Art, altra mistificante definizione anglosassone militarmente imposta sul finire del ‘900. Premesso questo, uno sguardo d’insieme al fenomeno Street Art denota come esso segua pedantemente la pista aperta proprio dalla Pop Art, marciando sull’equivoco di una snobistica arte colta, che si costruisce un’idea retorica e di maniera intorno alla cultura popolare con la quale – a parole – vorrebbe interagire. Le opere in oggetto si possono qualificare decisamente come “pittura”, nel senso che hanno standard ideativi ed esecutivi spesso molto raffinati e logiche propositive (teorie, giustificazioni, finalità) decisamente non popolari, cioè sempre ispirate dalla cultura accademica e “tarate” sulle dinamiche dell’arte “ufficiale”, ovvero sistema delle installazioni, circuito dei musei, rapporti con le gallerie, attenzione alle quotazioni di mercato, eccetera.
La definizione Street deriva dal fatto che i luoghi in cui essa si esplica sono i muri e l’arredo delle periferie urbane delle megalopoli europee e statunitensi. Non si tratta però di un fenomeno autoctono che, partendo dal basso, conquista i vertici della cultura artistica ma, al contrario, di un’operazione di vertice, che persegue i propri fini elitari operando coercitivamente sulla base. Non abbiamo cioè di fronte i giovani neri di Harlem, che sfuggono al degrado e all’isolamento culturale scarabocchiando le metropolitane di New York – tale almeno era il mitologema originario da cui questa Art scaturiva – ma i pedanti seguaci delle avanguardie del secondo dopoguerra. Seguaci che ne perpetuano i dogmi, acquisendo i loro nuovi strumenti operativi dal “vandalismo” urbano.
Proprio questa radice “vandalica” fa della Street Art non un’arte pubblica ma, ancora una volta, un’arte privata, frutto delle personali ossessioni dei suoi autori, imposta abusivamente al pubblico: dove l’abuso sta, di fatto, sia nella non richiesta installazione delle opere da parte dei fruitori, sia nella violazione degli espliciti divieti comunali sulla loro esecuzione nei luoghi interessati. Anche sul piano dei contenuti siamo lontani da una vera e propria arte pubblica perché, pur essendo molte opere estremamente raffinate nella loro esecuzione, la loro forma è ispirata da una stucchevole idea di degrado urbano, spesso corroborato proprio dalla presenza delle opere stesse, e i loro contenuti non vanno al di là di un manierismo sociologico desunto dai luoghi comuni anarcoidi di una sottocultura giovanile, che gioca alla rivolta per sottrarsi alle proprie responsabilità civili (è più facile e divertente bruciare un cassonetto “per protesta”, che progettare e proporre un piano urbanistico più vivibile).
Che il fenomeno nasca nelle scuole d’arte anziché dalle strade, lo testimonia la simmetrica cura con cui i vari autori coltivano i rapporti con le istituzioni artistiche deputate – cioè gallerie e musei – rispetto all’apparente spontaneità dei loro interventi stradali. In ultima analisi, non si può fare a meno di constatare come l’intero movimento sia da ascrivere ad una sottocultura urbana, i cui orizzonti non vanno oltre i quattro palazzoni di periferia in cui si manifesta. Sarebbe interessante mettere alla prova questi artisti in un ambiente rurale o in un pittoresco paesino di montagna.
In alto: Graffiti Art a Berlino (www.urbantrash.net). Sotto: Edme Bouchardon, L'attacchino, litografia dalla serie "Etudes prises dans le bas peuple oú les cris de Paris", 1737-1742 (Wikimedia Commons).