L’Italia d’oggi soffre della senilità della propria classe dirigente, problema anagrafico che si riflette sul piano culturale. L’esperienza e la saggezza degli anziani sono una guida per i giovani, a patto però che gli uni e gli altri lavorino sullo stesso piano di realtà. In caso contrario, i giovani ricevono idee semplicemente vecchie, non sagge. Non serve ricordare la recessione del 2009 e l’attuale crisi politica generata dal sedicente Stato Islamico, per poter affermare che chi era giovane negli anni del boom economico e della guerra fredda, ha ben poco da dire a chi è giovane oggi. Per quanto ci compete, ossia i temi della decorazione, questa senilità si attua nel perpetuarsi di stereotipi avanguardisti, aprioristicamente antidecorativi, che condizionano scelte politiche ed economiche di sistema.
Chi è rimasto fermo alle concezioni industrialistiche degli anni ’60 capisce ben poco di artigianato, cioè di quella che, assieme alla piccola e media industria, è la sola via d’uscita in una realtà globalizzata, che ha azzerato la grande industria italiana. Chi ha ancora nel cuore le performances anni ’70, quando nudi si danzava al Parco Lambro in nome di un’arte fra-intesa come “liberazione dalle regole di una società borghese ipocrita e conformista”, capisce ben poco dell’industria artistica (e delle relative filiere), il cui successo si fonda proprio sul rispetto delle regole canoniche, e a cui si deve buona parte dell’attuale export italiano.
Dopo il devastante tsunami culturale della Contestazione, che ha caratterizzato i cosiddetti anni di piombo, assistiamo oggi ad una sorta di ondata di ritorno. I giovani di allora, obbligati al tempo a studi “seri” quali ingegneria o giurisprudenza, raggiunti il benessere economico e la pensione tornano oggi all’amore giovanile, l’arte. Ma si tratta dell’arte di cinquant’anni fa, quella che con invidia hanno visto fare agli altri, mentre loro erano chini sui libri. Stiamo subendo un paradossale riflusso sessantottino, tutto imperniato sulla pedante imitazione dei modelli aurei dell’epoca. Il tutto, cementato dalla nostalgia degli anziani finanziatori e propositori ed avallato dallo sconcertante conformismo delle generazioni di mezzo, ancora convinte che la zelante ortodossia avanguardista paghi in termini di carriera accademica e di mercato artistico. Siamo al copia-incolla delle foto del catalogo di una qualsiasi biennale degli anni ’70.
Il risultato di questa cultura diffusa, palesemente obsoleta, è il fallimento estetico: le sue espressioni “artistiche” risultano inconsistenti sia nel proprio essere, giacché spesso si tratta di effimere manifestazioni installative o performative, sia nel proprio apparire, in quando l’anti-estetica che le informa risulta inapplicabile al vivere civile, come testimoniano i tanti, fallimentari tentativi compiuti dall’industria artistica per piegarla alle proprie esigenze produttive.
Chi esibisce oggi questo tipo di arte, ricorre sempre più di frequente a contesti aulici quali ville o palazzi storici, come se il blasone di questi potesse dare una parvenza di legittimità a proposte altrimenti insostenibili. “Se è arte la villa, allora lo sarà anche ciò che vi è esposto”, è l’assunto di fondo di questo tipo di operazioni. Viceversa, se la location fosse (com’era all’epoca e come coerenza imporrebbe) di gusto razionalista o underground, la pochezza del contenitore farebbe ancor più risaltare l’inconsistenza del contenuto. Ne sono una riprova i tanti tentativi di fare Public Art ingombrando, con oggetti indefinibili, spazi urbani destinati tradizionalmente al decoro, e un tempo occupati dalla seria statuaria celebrativa e dalla canonica decorazione. Veteroidealismo crociano, situazionismo e avanguardismo di maniera diventano alibi di facciata, declamati a gran voce per coprire inettitudine e millanteria. L’esito finale di questa sottocultura è il fallimento. Giovani artisti in cerca di un’occupazione decorosa e consona, filiere industriali che necessitano di idee e di maestranze, comunità che chiedono identità e cultura, amministratori pubblici che cercano decoro per le proprie città: tutti costoro pongono precise istanze di senso, ricevendo in cambio nulla più che gadgets.
La realtà di fatto che i vecchi-vecchi (e non pochi vecchi-giovani) di oggi sembrano dimenticare, è che nei mitici anni ’70, chiunque, artista o fruitore 〈1〉, partecipasse in prima persona alle mostre, era preparato a sostenere tesi che, spesso e volentieri, implicavano il ricorso a sperimentazioni estreme, e sulle quali il dibattito si spingeva non di rado fino allo scontro fisico. Coloro che oggi, ormai maturi, vagheggiano nostalgicamente il folklore di tali dispute (all’epoca prudentemente osservate da lontano), rimpiangeranno forse la pulsione ormonale che le faceva loro apparire come contesti mitici in cui si professava l’amore libero, ma si guardano bene dall’entrare nel merito delle questioni scottanti che, ora più che mai, sono sul tappeto: il ruolo sociale dell’opera d’arte, lo status dell’artista, i suoi rapporti col contesto che lo circonda.
Ecco allora chiarirsi anche la ragione per cui gli eventi d’arte “contemporanea” vengono così frequentemente gemellati con l’enogastronomia, con la moda, con l’happening urbano: l’importante è che l’arte faccia discreta mostra di sé presentando oggetti curiosi, ammiccanti agli anni ruggenti della Contestazione quel tanto che basta per attirare l’attenzione e richiamare la nostalgia dei bei tempi andati; senza però inquietare i convenuti, distogliendoli dal godimento dell’evento mondano e dai fini promozionali dello sponsor. Che cosa sia arte, che funzione abbia l’opera, chi sia l’artista e quale il suo ruolo nella società, sono domande totalmente assenti da simili contesti, nei quali il concetto stesso di dibattito è stato bandito. Noi che dibattere vogliamo, riproponiamo con forza queste domande dalle pagine della nostra rivista, aggiungendo che è nella forma dell’opera che la risposta dovrà essere data, perché il tempo delle supercazzole 〈2〉 è finito.
〈1〉 Anche questo termine, con cui il fenomenologismo del tempo indicava gli appassionati d’arte, è espressione di una cultura tipicamente vintage. 〈2〉 L'inserimento del vocabolo "supercazzola" nell'edizione 2016 del dizionario Zingarelli, merita una piccolo commento a margine. L’origine del termine è nota: nel film di culto Amici miei (regia di Mario Monicelli, 1975), un serissimo Ugo Tognazzi riversava un fiume di parole sconclusionate sui propri interlocutori, i quali, intimoriti dalla postura e dall’espressione seria dello stesso, non avevano il coraggio di chiedere spiegazioni o di ammettere che si trattava di una presa in giro. Questa gag cinematografica ben rappresenta la temperie culturale del periodo. Sopra: Ritratto della regina Nefertiti (particolare), ca. 1340 a.C., quarzite e pigmenti, Berlino, Neues Museum. Sotto: Ugo Tognazzi e Mario Scarpetta in "Amici miei", 1975.