Come osserva lo storico tedesco Thomas Nipperdey in un volumetto uscito in Italia oltre vent’anni fa, le arti sono diventate, nella concezione borghese affermatasi durante i secoli XIX e XX, «un elemento della domenica, del giorno festivo della vita» 〈1〉. Esse hanno cioè preso congedo dalla dimensione pratica, “feriale”, che le accomunava alle altre attività lavorative, per assurgere ad attività ludico-ricreative, il cui senso residuale consiste nell’intrattenere ed elevare il pubblico nei modi, tempi e contesti deputati. Occupando questa posizione a prima vista privilegiata (in realtà assai scomoda) di religione laica, chiamata a ricreare spiritualmente le persone nei momenti in cui queste non sono impegnate nelle attività produttive, le arti non potevano che accentuare ad oltranza gli aspetti rituali, di messa in scena, di autocelebrazione elitaria.
L’enfasi posta su questi aspetti ha avuto due effetti opposti. Da un lato, ha reso le opere d’arte sempre più aperte quanto alle rete di stimolazioni sensoriali e tecnologiche di cui si avvalgono (ed ecco i linguaggi figurativi, letterari, musicali, performativi, fotografici, elettronici, fondersi e interagire in un multiforme, debordante metalinguaggio); dall’altro, le ha rese sempre più chiuse, ermetiche, sfuggenti, quanto alla loro concreta decifrazione. I pretesti legati alla non-convenzionalità, alla non-comunicabilità, sono andati aumentando a dismisura, in un quadro in cui, per restare sulla cresta dell’onda, all’artista è diventato sempre più necessario sorprendere, spiazzare, non dare punti di riferimento certi.
Poste tali premesse, si spiegano anche i molteplici modi di interrogarsi sulle arti – dai più seriosi e filosofici ai più satirici e caustici – che l’immaginario del secolo XX ha via via escogitato. Su questi modi di interrogarsi, un’importante funzione di apripista l’ha certamente esercitata, nell’accezione scherzosa e irriverente che qui ci interessa, il cinema. E soprattutto quella commedia all’italiana in cui, quaranta-cinquant’anni fa, si celebravano i consumi di massa, la mobilità sociale, le alienazioni e gli snobismi sospinti da un’impetuosa, oggi irripetibile crescita economica. Dunque non solo cinema d’autore, o comunque non solo di quei pochi autori che avevano le carte in regola per potersi considerare artisti di rango assoluto.
Come in molti altri campi, più o meno minati, della sensibilità novecentesca, il “rompete le righe”, l’annuncio che il re era nudo e non aveva senso prostrarsi di fronte alle autorappresentazioni di una élite culturale libertaria a parole, in realtà pesantemente conformista, non venne infatti dalle figure-chiave del panorama cinematografico dell’epoca, come i Visconti, i Fellini e gli Antonioni. Piuttosto, esso venne da figure che alla strada dell’autorialità rigorosa, esente da compromessi, preferirono sempre quella del professionismo, dei generi: commedia in primis, e poi western, giallo, storico-mitologico e così via. Del resto non era forse la teoria dei generi (pittura di storia, ritratto, paesaggio, natura morta e via dicendo), il filo rosso che attraversava anche le arti figurative prima che nascessero fotografia, cinema e televisione? Insomma, la storia si ripete. Forse non identica, ma certo abbastanza somigliante a se stessa.
Precisiamo subito che il gioco delle sottovalutazioni e delle rivalutazioni non ci interessa e non ci compete: ci sono i maggiori e i minori, ci sono scale di valori che non possono essere sovvertite con un colpo di spugna. Tuttavia bisogna riconoscere che il fatto stesso di non aver nulla da perdere (o di avere meno da perdere) rispetto a colleghi più importanti, prediletti dalla critica, ha probabilmente agevolato alcuni uomini di cinema nel prendere a bersaglio, con lo scopo di far ridere, l’arte e la cultura del proprio tempo, nello stesso modo in cui già prendevano a bersaglio un’ampia gamma di usi, costumi, comportamenti e convenzioni. Iniziò così a venire alla luce, anche per merito loro, quella che era la faccia nascosta dei neo e dei postavanguardismi nelle arti: l’essere espressione di una cultura ammantata di ragioni buone e giuste (progressismo, antifascismo, modernità industriale contro tradizione contadina, sguardo puntato verso le grandi capitali europee e mondiali) ma, sotto sotto, accademizzata e pedante come quella a cui reagiva.
La palma della satira più celebre va probabilmente ad Alberto Sordi, attore, regista ed anche sceneggiatore (con Rodolfo Sonego) di Le vacanze intelligenti, uno dei tre episodi del film Dove vai in vacanza? (1978). Famosissima, nel corso della visita che Sordi e la partner Anna Longhi compiono alla Biennale di Venezia impersonando una coppia di fruttivendoli romani, la scena in cui lei occupa per errore una sedia, venendo scambiata da critici e visitatori in arrivo per una “scultura vivente”. Qui viene subito in mente il ragazzo down esposto da Gino De Dominicis alla Biennale del 1972. Tuttavia la visione completa del cortometraggio di Sordi, girato in varie locations tra cui la vera Biennale del 1978 e dunque prezioso anche sul piano documentario, lascia capire, a chi non c’era o non ricorda, che la “scultura vivente” era un vero e proprio tormentone (le analoghe esperienze di Yves Klein e Piero Manzoni datavano a circa vent’anni prima) in quella temperie ormai esausta. Così esausta da sembrare davvero, riassaporata in chiave di fiction cinematografica, una messinscena concepita appositamente per ottenere effetti esilaranti.
Una pietra miliare nella satira non solo e non tanto dell’arte, quanto di un certo modo fumoso ed “impegnato” di discettare sull’arte, era stata posta nel 1976 da Il secondo tragico Fantozzi diretto da Luciano Salce. Qui, all’ennesimo cineforum cui deve partecipare, pena l’ostracismo sociale e lavorativo, il personaggio interpretato da Paolo Villaggio interviene nel dibattito che segue la proiezione de La corazzata Potëmkin, sbottando nella celebre frase: «Per me La corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca!». Da notare la storpiatura del titolo e del nome del regista (Einstein anziché Eisenstein), congiunti al fatto che le sequenze del film sovietico non sono originali, ma girate da Salce ex-novo. Con un effetto caricaturale che si raddoppia subito dopo, quando lo stesso Fantozzi, nei panni del neonato in carrozzina, viene obbligato per punizione a reinterpretare la famosa scena della scalinata di Odessa. Al di là dell’efficacia comica, questa trovata fa anche riflettere su come lo zelo degli epigoni, tanto più quando essi vogliono scomodare i testi sacri, abbia esiti invariabilmente rovinosi e parodici (Villaggio direbbe “tragici”). Il libro originale di Villaggio narra l’episodio Potëmkin-Kotiomkin in modo più scarno, ma aggiungendovi un antefatto interessante: «Una volta per errore (davano Ciapaiev), proiettarono prima la seconda bobina poi la prima. Nel dibattito il santone [cioè il critico cinematografico, n.d.r.] cominciò con “il grande maestro… Ha qui l’intuizione sublime di far morire Ciapaiev all’inizio e di farlo poi rivivere…”. Non finì la frase perché lo avvisarono dell’errore e la serata finì in maniera umiliante per tutti» 〈2〉.
Nel registro comico-farsesco, la capacità di far ridere si paga spesso con l’impossibilità di esser presi davvero sul serio. Ma vi sono occasioni in cui la comicità è talmente efficace da diventare essa stessa, per così dire, fonte di verità: in quelle occasioni si capisce che è non solo lecito, ma addirittura giusto e liberatorio ridere di quei personaggi, di quelle parole, di quegli atti; anche se, suprema comicità, nella vita di tutti i giorni si continua, di fronte alle stesse cose, a restare impassibili.
Tuttavia, qualche azzeccata riflessione sugli statuti del contemporaneo si può cogliere, sempre nella cinematografia degli anni ’70, anche in contesti dichiaratamente non comici. Un esempio molto interessante è la figura di Buono Legnani, pittore d’invenzione sulla cui vita ed opera si impernia la trama del giallo-horror di Pupi Avati La casa dalle finestre che ridono, anch’esso del 1976. Nella vicenda sceneggiata da Pupi e Antonio Avati insieme a Gianni Cavina e Maurizio Costanzo, Legnani è una sorta di Antonio Ligabue della bassa ferrarese: un artista semisconosciuto, non solo psichicamente instabile però, ma, diversamente dal celebre pittore naïf, tutt’altro che innocente, anzi profondamente degenere e corrotto, incapace di qualunque sana comunicazione col mondo. A coadiuvarlo nel seviziare i malcapitati che egli ritrae nelle proprie opere, facendolo precipitare definitivamente nel delirio, sono le due sorelle, le quali vogliono preservarne la memoria e rinnovarne il talento anche dopo la sua morte. In che modo esse realizzano tale proposito? Non certo conservando e valorizzando le opere del fratello, che, per le scene stesse che riproducono, sono diventate altamente compromettenti. Semplicemente, conservando il cadavere del fratello in una soluzione chimica, per ripetere davanti a lui le macabre cerimonie che già gli venivano dedicate in vita.
Vi è tutta una strategia dell’arte contemporanea – sembra sottintendere il film di Avati – in cui l’identificazione tra arte e vita è così stretta, che tanto varrebbe conservare non l’opera ma, direttamente, l’artista. Vent’anni prima degli animali di Damien Hirst, a finire in formalina è quindi l’uomo, l’artista, l’autore stesso. Sarebbe decisamente troppo pensare che La casa dalle finestre che ridono abbia profetizzato il post-human degli anni ’90. Ma che, sotto sotto, il film volesse ironizzare sul culto a dir poco generoso ed eccessivo che l’età contemporanea tributa al mito dell’artista, è, a rivederlo oggi, molto più che un sospetto.
〈1〉 T. Nipperdey, Come la borghesia ha inventato il moderno, Roma, Donzelli, 1994, nota in quarta di copertina. 〈2〉 P. Villaggio, Il secondo tragico libro di Fantozzi, Milano, Rizzoli, 1974, p. 117. In alto: Anna Longhi divenuta opera d'arte alla Biennale di Venezia in "Dove vai in vacanza?" (1978); Sotto: Lino Capolicchio e Gianni Cavina ne "La casa dalle finestre che ridono" (1976).