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Antonio Basoli: cosmologia della decorazione

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Fino a qualche tempo fa, il bolognese Antonio Basoli (1774-1848) era artista sottovalutato nonostante l’importante ricordo che aveva lasciato di sé, abbellendo i palazzi cittadini e insegnando Ornato presso la locale Accademia di Belle Arti. Accademia che detiene, per espressa volontà di Basoli, gran parte dei materiali progettuali e didattici che gli appartenevano. Si tratta principalmente di disegni (innumerevoli fogli, ordinati in albi e taccuini che illustrano tematiche diversissime: dalle città antiche e moderne, alla storia, al mito, alla favola, agli alfabeti, ai motivi ornatistici tradizionali per l’architettura, la miniatura, la tipografia, e l’elenco potrebbe continuare a lungo); ma vi sono anche incisioni, manoscritti e volumi a stampa. Fortunatamente in questi ultimi anni la situazione è cambiata, soprattutto grazie alla pubblicazione dell’autobiografia, documento essenziale per la conoscenza dell’artista, e all’allestimento di una grande mostra, col relativo catalogo 〈1〉. Gli studiosi coinvolti in queste iniziative hanno analizzato molteplici aspetti della sensibilità di Basoli, uomo colto e amante delle letture, docente apprezzatissimo dai propri allievi, e soprattutto protagonista, sia in prima persona sia instradando il lavoro altrui, del decoro d’interni, della scenografia teatrale, dell’arte cimiteriale, del vedutismo, nella Bologna della prima metà del secolo XIX.

Se un limite si può scorgere in tutte queste analisi, esso consiste nel non aver ancora fatto emergere un denominatore comune, un criterio organizzatore che deve pur esservi stato, così come nell’opera di ogni vero maestro, anche in quella di Basoli. Occorre cioè andare oltre il luogo comune secondo cui quella di Basoli è una visione nomade, svagata, “virtuale”, priva di centro. Erudizione sconfinata, enciclopedismo, eclettismo tematico e stilistico, sono in realtà sensazioni non nuove per chi si occupa di storia dell’arte. E sono sensazioni che, a considerarle con la dovuta attenzione, tradiscono, per tutte le epoche in cui si presentano, un preciso retroterra professionale ed artistico-culturale, che spiega certe anomalie e peculiarità. Un retroterra che occorrerebbe identificare meglio, proprio per capire quale ratio si nasconda anche dietro l’ingordigia di immagini del tranquillo professore bolognese Antonio Basoli.

Antonio Basoli (disegnatore) e Ludovico Aureli (incisore), Lettera G dalla serie litografica “Alfabeto pittorico”, 1839.

Si pensi ad esempio al rinascimento “inquieto”, “pagano”, “dionisiaco” (qui e altrove, le virgolette sono d’obbligo) con cui tanti storici hanno dovuto fare i conti, ogniqualvolta hanno percepito che dietro l’immagine di facciata prevalente nell’iconografia dei secoli XV-XVI, c’era un universo di forme “irregolari”, con sopravvivenze di un immaginario magico e apotropaico, fatto di figure grottesche e metamorfiche, in cui si riconoscevano apporti antichissimi, sia europei sia extraeuropei. Si pensi anche, su tutt’altro versante cronologico, a quel novecento che, soprattutto negli anni dell’Art Déco tra le due guerre mondiali, coltiva una gran mole di citazionismi, surrealismi, eclettismi, che trovano sbocco in produzioni commerciali di diffusione ampia ma effimera: dalle suppellettili alla pubblicità, dall’arredamento all’editoria. Produzioni che possono fare arricciare il naso ai cultori di un avanguardismo e di un modernismo radicali, ma hanno il pregio di consegnarci una modernità autentica, vivibile, capace di colloquiare con la storia e la tradizione senza dover sottostare a faticose rimozioni e a paralizzanti complessi edipici.

Ebbene, un’analisi spassionata ci dice che “quel” rinascimento e “quel” novecento hanno alle spalle situazioni in linea di principio simili tra loro. E cioè, l’essere momenti di una civiltà che investe fortemente nel decoro, in tutte le sue manifestazioni: dalle arti suntuarie alla moda ai tessuti alle strutture ornamentali per l’architettura. Naturalmente, la difficoltà di accostarsi a “quel” rinascimento e a “quel” novecento cambia in relazione alle due diverse epoche. Nel caso rinascimentale soffriamo della carenza di fonti e della dispersione di documenti dovuta al trascorrere dei secoli e al diffuso anonimato in cui gli artisti-artigiani operavano, ed è principalmente a causa di ciò che certe situazioni ci sembrano anomale. Per gli artisti-artigiani di quel tempo, al contrario, era cosa del tutto ovvia, dovendo abbellire ed ornare una vasta gamma di oggetti d’uso, operare su un repertorio di motivi molto più vasto e composito di quello, regolarizzato, selezionato e accuratamente custodito nel tempo, che veniva ammesso per le opere d’arte aventi valenze di tipo istituzionale, codificato. Nel caso novecentesco, a noi molto più vicino, la difficoltà coinvolge sia gli artisti sia chi li studia: e non tanto perché vi sia carenza di materiali e di notizie, quanto per l’oblio che la cultura del secolo XX ha fatto cadere sui fenomeni del decoro, declassandoli al rango di “non arte” o al massimo di arte “applicata”, quindi estranea al corpo vivo della ricerca artistica d’avanguardia. Vi è insomma, riguardo al secolo XX, un circolo vizioso per il quale, da un lato, chi si dedica a tempo pieno alla ricerca decorativa è considerato artista di serie B; dall’altro, il pubblico e la critica faticano a cogliere le valenze formali e inventive della decorazione, stante la rimozione collettiva che grava su di essa (col suo lessico e la sua grammatica) in quanto arte.

Tornando a Basoli: anche qui, la chiave di volta dell’universo grafico basoliano non può che risiedere nell’identità artistica e professionale che per tutta la vita sostenne, rafforzò e motivò le ricerche dell’artista bolognese. Non quella di pittore murale, perché per Basoli l’affresco era semplicemente il canale espressivo preferenziale, nel momento in cui lui (o i suoi collaboratori) dovevano trasferire il progetto in scala, redatto su carta, sulle pareti e i soffitti dei palazzi bolognesi. E nemmeno quella di pittore di quadri da cavalletto, perché, come di norma nella tradizione del quadraturismo e della pittura da camera, il virtuosismo spaziale-prospettico trovava largo impiego, oltreché nella decorazione parietale, anche in quella su supporti mobili, che permettevano una rifinitura molto più dettagliata e realistica, nella comodità dello studio anziché in loco, e rendevano più flessibili sia la vendita sia il posizionamento finale delle opere.

Antonio Basoli, Monumento sepolcrale Ercole Orsi (particolare), 1803 circa, pittura murale, Bologna, Cimitero della Certosa (www.storiaememoriadibologna.it).

In tutte queste forme e in altre che il suo magistero tecnico gli permetteva di affrontare, Basoli non cessò mai di essere, appunto, decoratore: e cioè, di progettare sistemi di immagini trasferibili ed ambientabili a piacere (con le opportune correzioni morfologiche e di scala) su questo o quel supporto, senza escluderne alcuno a priori. Conseguentemente, i mille spunti tematici presenti nei suoi disegni altro non sono che i materiali di base che egli quotidianamente elaborava e registrava, riconducendoli allo standard facilmente archiviabile del foglio, dello schizzo, dell’appunto. Solo una piccola parte dei disegni di Basoli hanno poi visto la luce in forma più compiuta, ma non è difficile immaginare quale avrebbe potuto essere il loro posto nel gran mare del décor otto-novecentesco, dalle carte da parati agli apparati scenografici, dalle decalcomanie per mobili alle figurine, percorrendo le mille e mille articolazioni di un sistema sconfinato. A maggior ragione è sintomatica, nel repertorio tanto assortito dei temi basoliani, l’assenza della ritrattistica. Non per incapacità dell’autore, ma semplicemente perché, nell’economia della decorazione, nemmeno la figura umana gode di speciali privilegi. Anch’essa infatti deve sottostare a procedure di standardizzazione che la fanno diventare ora macchia nel paesaggio, ora cammeo, ora grisaglia; anch’essa deve mimetizzarsi in una sequenza ritmica e geometrica commisurata al manufatto (muro, recipiente in ceramica, vetrata, mosaico, tappezzeria…) cui dovrà aderire.

Un’ultima notazione su un dato biografico e caratteriale tante volte ricordato a proposito di Basoli: la sua condotta di vita sedentaria e metodica, senza vistosi sbalzi d’umore, apparentemente ai limiti della banalità. Non siamo forse, con gli artisti della generazione di Basoli, in pieno romanticismo, dunque gomito a gomito con le intemperanze, le eccentricità, la bohéme, gli impeti improvvisi di cui sono piene le cronache dell’arte e della letteratura del tempo? Anche qui, la spiegazione (o quantomeno una prima spiegazione) potrebbe essere tutta interna alla professione di Basoli. La decorazione è per eccellenza e, si potrebbe dire, per statuto etico, l’arte (e il mestiere) in cui gli opposti si toccano, in cui tutto ritorna, in cui non vi è clima o tendenza che possa primeggiare sugli altri. Non la tragedia o la commedia, non il sacro o il profano, non l’antico o il moderno, non la figurazione o l’astrazione. Tutto si bilancia, tutto coesiste, in un ordine e in un intreccio cosmici che sono, al tempo stesso, la forma e il destino di una disciplina.

〈1〉 Per l'autobiografia di Basoli vedi: F. Farneti - V. Riccardi Scassellati Sforzolini (a cura di), La vita artistica di Antonio Basoli, Bologna, Minerva Edizioni, 2006. Il catalogo della mostra: F. Farneti - E. Frattarolo (a cura di), Antonio Basoli. Ornatista, scenografo, pittore di paesaggio, Bologna, Accademia di Belle Arti-Pinacoteca Nazionale, 15 marzo-15 giugno 2008, Bologna, Minerva Edizioni, 2008.

In alto: Antonio Basoli, Il Gran Memnonio d'Egitto (particolare), 1840, acquarello e inchiostro su carta, mm. 235 x 364, New York, The Morgan Library and Museum (www.themorgan.org). Sotto: Antonio Basoli, Antico porto romano sul Tevere, ante 1810, olio su tela, cm. 64 x 85,5, Bologna, Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna (www.collezioni.genusbononiae.it).

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