Nel linguaggio corrente, la disciplina della Decorazione si definisce come quella che interviene sugli oggetti di uso comune, “applicandovi” le forme dell’arte. Il verbo “applicare” tradisce l’origine ottocentesca della definizione. E’ infatti sul finire del secolo XIX che, nelle Accademie di Belle Arti, si cominciò ad avvertire la necessità di una disciplina che si occupasse di decoro, stante il fatto che le arti tradizionali erano sempre meno in grado di assolvere a tale compito. Fino ad allora, sia per gli ovvi motivi legati alla civile convivenza, sia perché ne aveva ereditato struttura teoretica e pratica scolastica dalla retorica latina – arte liberale per eccellenza e dunque oggetto di insegnamento universitario – l’intera cultura occidentale identificava il proprio pilastro etico nella questione del decoro. Conseguentemente, pittura, scultura e architettura la assumevano come elemento paradigmatico di ogni loro attività.
Il passaggio dal XIX al XX secolo portò mutamenti epocali. Da un lato, la ricerca artistica spostava via via il proprio interesse dalla comunità all’individuo, assumendo idealismo prima, psicanalisi poi, come teorie di riferimento; dall’altro, la trionfante industrializzazione proponeva materiali e manufatti totalmente nuovi, su cui il problema del decoro andava risolto ex novo. Ne derivarono conseguenze paradossali: le arti tradizionali, definite “belle” perché capaci di imitare la natura, non solo rinunciarono alla propria storica funzione di fautrici del decoro, ma addirittura elevarono l’ ”indecoroso” a propria bandiera, in un quadro di totale arbitrio individualista. Tutto ciò, in un periodo storico nel quale il loro contributo sarebbe stato ancora più prezioso, stante, appunto, l’enorme massa di nuovi materiali e manufatti sui quali occorreva intervenire ad hoc.
Lasciato cadere l’aggettivo “belle”, la separazione delle arti in “pure” ed “applicate” fu il tentativo di assicurare loro, da un lato, il prestigio culturale che la società industriale reclamava a gran voce; dall’altro, la flessibilità che il nuovo panorama tecnologico esigeva. Decorazione e Scenografia furono le nuove arti, sorte da questa risistemazione degli ambiti disciplinari. Ma il concetto stesso di “applicazione” testimoniava la diffusa convinzione che solo le forme ispirate al dato di natura fossero compatibili coi manufatti industriali. Esemplare è in questo senso il decoro fitomorfo della macchine da cucire Singer, ancor oggi presenti in molte case come oggetti di affezione. Se a noi, così come ai detrattori razionalisti dell’ornato, tale impostazione risulta oggi discutibile, va detto tuttavia che alternative non ve n’erano, giacché le nuove forme, arbitrarie ed “indecorose”, delle arti moderne, risultavano comunque “inapplicabili”.
La distanza storica consente oggi, caduti i dogmi ideologici, di fare alcune valutazioni di merito. Premesso che anche nella bottega tradizionale si faceva attività progettuale, ma attraverso l’imitazione di modelli che lasciavano al maestro artigiano l’iniziativa sulle singole parti esecutive, la grande novità introdotta dalla rivoluzione industriale consistette, appunto, in un iter progettuale molto più dettagliato e meticoloso. La divisione industriale del lavoro imponeva la pianificazione anche di azioni banali come, ad esempio, piantare due chiodi. Il disegnatore industriale, cioè lo specialista capace di trasformare le idee e i prototipi dei vari inventori nei progetti necessari all’avvio delle macchine e delle catene di montaggio, divenne la figura-chiave del nuovo sistema produttivo. Il suo lavoro di progettista, in particolare di involucri e gusci esterni, è a tutt’oggi determinato dai processi industriali di cui egli è parte in causa. Processi che egli interpreta secondo le stesse, ferree regole di funzionalità ed economicità, che disciplinano il meccanismo interno. Nel disegnare l’involucro esterno, egli affronta il problema del decoro attenendosi al più a parametri quali il gusto corrente (si pensi ai primi apparecchi radio) o ai miti collettivi (ad esempio, gli jukebox “spaziali” degli anni ’50). Questo perché il versante del decoro non gli appartiene né gli compete. La forma “estetica” o “bella forma”, come la si definiva un tempo, compete all’artista. Sua è infatti la responsabilità di inventare le forme ritenute di volta in volta “belle”, cioè “giuste”, “opportune” e, infine, “decorose”, dalla cultura corrente.
Ma la questione non è solo estetica. L’artista sa fornire soluzioni esteticamente valide perché è portatore di un sapere profondamente innervato nei principi della cultura coeva; tant’è che suoi interlocutori, da sempre, sono il filosofo e/o il teologo. E’ proprio lì, nell’ambito del disegno “tecnico”, che può esservi osmosi tra la il disegnatore industriale e l’artista, osmosi finalizzata a tradurre le forme migliori e più selezionate, correnti nelle arti figurative, in progetto industrialmente valido. Soprattutto quando un manufatto ha una destinazione pubblica che travalica la singola funzione dell’oggetto d’uso quotidiano, è importante che la sua forma finale sia portatrice di un plusvalore, della cui invenzione solo l’artista è capace, ovviamente a patto di adeguare le sue procedure ideative al sistema produttivo industriale. E’ in questo scenario che, sul finire del secolo XIX, emerge la figura del decoratore quale artista specializzato in disegno industriale, omologo e sinergico rispetto alla figura “tecnica” del disegnatore industriale propriamente detto. Si tratta di una polarità paritetica: al suo interno, il nuovo oggetto industriale può di volta in volta trovare la collocazione più opportuna fra i due poli opposti, quello artistico e quello tecnico.
Il secolo XX ci consegna una drammatica rottura, operata con criminale mistificazione, di questa iniziale unità bipolare. Il risultato fu una cultura dogmaticamente ornatofobica. Senza il polo artistico, infatti, quello tecnico, non deputato a produrre i modelli culturali di riferimento, entra in cortocircuito. Certo, il pensiero industriale per un certo periodo fu collocato sull’altare della filosofia, per cui le due posizioni, quella culturale e quella tecnica, sembrarono coincidere, ma si trattò dell’usurpazione temporanea di un mezzo rispetto ai fini. Ma torniamo alla questione più scottante, e cioè la mistificazione ornatofobica novecentesca.
Abbiamo definito l’ornato come tecnica trasversale alle arti, necessaria a sostenerne le opere quando, per ruolo o collocazione, assumono una funzione civile. L’ornato non è arte perché, in sé e per sé, non garantisce la forma finale del manufatto. Ovvero, la sua buona esecuzione non garantisce la buona forma finale dell’opera, oggetto invece di invenzione artistica nell’accezione più ampia. Fine dell’ornato è, tramite i propri repertori, fornire gli elementi formali necessari alla divisione ritmica delle superfici. L’idea di base è che, quanto più è estesa, una superficie omogenea è “indecorosa” e necessita di interventi che creino al suo interno armoniche partiture ritmiche. Che poi tali partiture prendano forma di foglie o amorini svolazzanti, lo si deve al gusto del momento e non ad una vocazione intrinsecamente naturalistica dell’ornato, i cui repertori spaziano dalle algide geometrie alle ipertrofiche anatomie, offrendo forme per qualunque tipo di intervento.
Questo è l’equivoco di cui Adolf Loos si è fatto portatore. Tant’è che, nonostante i suoi furenti attacchi all’ornamento, da lui identificato come fitomorfo tout court, egli ha comunque rivestito e partimentato le vaste superfici interne delle sue architetture con incrostazioni marmoree ricche di venature (e costose, con buona pace della presunta economicità delle superfici lisce). Un’ulteriore conferma viene dai seguaci di Loos, protagonisti dell’algido razionalismo postbellico. Qui, all’ornatofobia calvinista delle architetture fa da contraltare un tripudio di rivestimenti lapidei, metallici e lignei usati al fine, appunto, di ornare le lisce superfici interne, evidentemente “indecorose” agli occhi degli stessi proponenti.
Se quanto detto fin qui è vero, si può avanzare una prima conclusione. L’ornato è strumento trasversale, tecnica artistica posta al servizio di tutti coloro che, a vario titolo, si occupano dell’invenzione della forma dei manufatti di uso civile. Esso deve tornare ad essere oggetto di “scolastica”, rientrando nei cicli formativi che, a vari livelli, preparano queste figure. In quanto tecnica “canonica”, esso costituisce un linguaggio condiviso che con la propria grammatica e sintassi consente un reale dialogo fra i vari specialisti della progettazione contemporanea, affetti da afasia creativa. Il tentativo di ricostituire l’unità polare fra arte e industria sulla base dell’arbitrio individualista, attraverso la “creatività” ed il personalismo, deve considerarsi ormai fallito. I distretti produttivi non possono giocare il loro futuro alla lotteria della creatività di un singolo designer, e i prodotti destinati a larga diffusione devono ontologicamente incarnare un’estetica comune, non esprimere il gusto del singolo. Su questi temi crediamo sia opportuno cominciare a dibattere.
In alto: Louis Comfort Tiffany, Lampadario (particolare), 1899, diametro cm 66, New York, Metropolitan Museum of Art. Sotto: Duilio Cambellotti, Scrittoio (produzione Ditta F.lli Nicoletti, Roma), 1923, cm 95 x 208 x 88, Miami, Florida International University, the Mitchell Wolfson Jr. Collection (www.wolfsonian.org).