Da strumento di studio ausiliario a pittura, scultura e architettura, tra Rinascimento e secolo XX il disegno è assurto ad espressione autonoma, artisticamente compiuta. La sua identità è quindi, oggi, duplice: da un lato, il pubblico privilegia in esso la pura abilità dell’artista, che sintetizza in pochi tratti un universo di forme e stati d’animo; dall’altro, gli addetti ai lavori lo concepiscono come il linguaggio deputato a prefigurare, analizzare e comunicare le proprie ricerche. Di fatto, il disegno per la decorazione appartiene alla seconda, più tradizionale tipologia, pur avendo in molti casi i titoli per rientrare anche nella prima. Durante le lezioni-laboratorio di qualsiasi scuola d’arte, studenti ed insegnanti tracciano schizzi per spiegare, in pochi istanti, concetti non esprimibili a parole. Si pensi per esempio alla rappresentazione in sezione che permette di visualizzare la forma di un oggetto, il suo aggetto dal piano di origine, le ombre proprie e portate che genera e, se in scala, le misure. L’operatore che ha seguito studi artistici tradizionali e completi ha, in punta di matita, una vera e propria lingua, autonoma e universale, che consente di tradurre una forma tridimensionale su un supporto bidimensionale. Tale è la funzione del disegno nelle fasi progettuale ed esecutiva di una decorazione murale dipinta, e tanto più nella tradizione ligure del trompe-l’oeil simulante stucchi a rilievo.
Quando ci si accinge a ridipingere un’antica facciata, la progettazione scaturisce da un lavoro di ricerca sugli elementi decorativi originali. Se questi sono ancora visibili, si procede ad un rilievo, ricalcandoli direttamente sul muro, fotografando i particolari e l’insieme, prendendo misure, producendo schizzi e bozzetti per analizzare, comprendere e colmare eventuali lacune dovute allo stato di degrado. Se il degrado è tale da rendere la decorazione quasi illeggibile – il che è frequente nelle pareti esterne – il rilievo potrà anche comportare la ricerca di documenti e foto storiche, nonché la creazione di bozzetti preparatori in scala. Il termine “disegno” è dunque nel nostro caso sinonimo di progetto, di sintesi strutturale. Ciò è tanto più evidente quando si parla di impianti, di apparati o di strutture a carattere decorativo.
Tanto nel prospetto di un edificio quanto in una parete interna, la divisione degli spazi e il posizionamento degli elementi costituenti la decorazione deve avere un’unità logica e armonica che obbedisca a regole storicamente consolidate, anche quando si tratta di architettura contemporanea. Le invenzioni di Leon Battista Alberti, Bramante e Michelangelo, l’armonia ineffabile e al tempo stesso razionale di Palladio, e tante altre proposte nate dallo studio umanistico dell’architettura classica, sono state un punto di riferimento fondamentale per oltre cinque secoli. La genialità dell’invenzione dell’ordine gigante, la sovrapposizione o l’uso di uno solo dei tre ordini classici (o dei cinque vitruviani), le licenze manieristiche nella composizione di basamenti, colonne, bugnati, cornici, fregi ed altri elementi, hanno costituito una grammatica della lingua decorativa ancor oggi imprescindibile.
La partitura dei prospetti rinascimentali-manieristi genovesi rispecchia esternamente la funzionalità interna dell’edificio, e continua a riproporsi fino agli inizi del ‘900 con il medesimo, ben collaudato schema: un basamento – spesso bugnato – al piano terra; finestre allineate e sovrapposte in almeno due ordini architettonici, siamo essi reali o simulati pittoricamente. In particolare, per il palazzo aristocratico si parlerà di piani nobili e ammezzati, per il condominio borghese di piani tutti uguali. Il tutto, scandito orizzontalmente da parapetti o cornici e “legato” verticalmente, sugli spigoli dell’edificio, da cantonali. Su questo modello-base, altri elementi potranno di volta in volta aggiungersi, per dar vita ad apparati sempre più complessi.
Per definire la qualità di un edificio, Leon Battista Alberti parla nel suo De re aedificatoria (1450) di “armonia tra tutte le membra nell’unità di cui fanno parte”. Assimilando metaforicamente architettura e anatomia, egli adombra una concezione del bello analoga a quanto avviene in natura – dove gli organismi tendono al tempo stesso all’armonia e alla funzionalità – lasciando intendere come architettura e decorazione siano, in fondo, la stessa cosa. Ecco perché, ad esempio, non si vedrà mai un bugnato pesante, ad altorilievo, collocato ai piani superiori di una facciata. Sarebbe come se un corpo umano avesse gli arti o altre parti mutate di posizione, con un risultato né gradevole a vedersi, né strutturalmente plausibile. Ipotizzando di dover progettare ex novo un prospetto dipinto (e a maggior ragione nel caso se ne debba riordinare uno che abbia subito ridistribuzioni spaziali interne), si dovrà dunque far riferimento agli ordini e alle regole della composizione antica, anche nel caso si vogliano utilizzare elementi decorativi differenti da quelli classici.
Ultima fase del progetto è il disegno di ornati e di altri particolari da riprodurre su carta in scala 1:1, nonché la realizzazione dei relativi spolveri. E’ da sottolinare come quest’ordine di grandezza, rispondente alle misure reali dell’oggetto, sia l’unico col quale il decoratore si confronti durante tutte le fasi di lavorazione (tranne nel caso di bozzetti preparatori che servono perlopiù ad illustrare il lavoro alla committenza o a terzi). Nello specifico dei finti stucchi, o di altri motivi aggettanti, l’operatore dovrà saper correttamente visualizzare gli spessori aggettanti (“soffitti”) ed i lati (“fianchi”) che, nella decorazione a rilievo, il fruitore coglierà dal proprio specifico punto di vista.
I prospetti di un edificio vengono colti, dalla strada o dalla piazza in cui sorgono, da infiniti punti di vista e, nella simulazione del rilievo, prenderne in considerazione uno solo significherebbe procurare distorsioni da tutti gli altri. Le più antiche facciate dipinte genovesi sono risolte secondo due diverse modalità: o in prospettiva centrale, cosicché le linee di tutti gli aggetti convergono verso la colonna di finestre mediana; o, nel dedalo degli stretti “carugi” del centro storico, privilegiando un punto di vista laterale, con le distorsioni che inevitabilmente ne derivano. E’ probabile che la progressiva sostituzione degli ornati medioevali e protorinascimentali, di gusto ancora prettamente grafico-pittorico, con partiture trompe-l’oeil simulanti elementi strutturali plasmati in stucco, fosse stata dettata da ambizioni scenografiche, connesse alla pratica degli apparati effimeri celebrativi. Più tardi, come testimoniano le decorazioni in esterno eseguite nei secoli XVIII, XIX e XX, si optò per la riduzione degli aggetti e la rappresentazione in prospettiva centrale di ogni singolo elemento.
Questo sapiente artificio sfrutta la capacità del cervello umano di compensare la visione dell’oggetto, rappresentato sulla base di dati parziali, elaborandone una propria, completa e corretta indipendentemente dal punto di vista. L’inganno che si viene a creare è determinato in primo luogo da come gli elementi vengono disegnati, ed è poi accresciuto, nella sua verosimiglianza, dagli effetti cromatici del chiaroscuro. In una facciata dipinta l’osservatore vede tutto l’apparato dal basso. Esclusi i piani del basamento che stanno al di sotto dell’altezza dei suoi occhi, egli percepirà tutti gli spessori aggettanti (quelli che, come si è già detto, in linguaggio tecnico si chiamano “soffitti”). Tali elementi dovranno essere inclusi nel disegno esecutivo in scala 1:1 ricavato da quello, in proiezione ortogonale e in scala ridotta, del progetto. Riassumendo: se si disegnano e si dipingono tutte le singole parti in visione centrale e ad esse si aggiungono, correttamente, i lati scorciati e gli spessori degli aggetti determinati dall’altezza rispetto all’osservatore, si ottiene l’illusione di essere di fronte ad un struttura architettonica in rilievo.
Dopo aver preparato tutto l’occorrente su carta, si può procedere alla tracciatura su muro. Disegnare sul prospetto di un palazzo è come trovarsi di fronte ad un enorme foglio di carta: le squadre vengono sostituite da metro a nastro, filo a piombo e livella. La matita viene quasi interamente sostituita dalla lenza (un filo di cotone ritorto, teso e battuto sul muro dopo averlo passato in una terra colorante) con la quale si tracciano gli ingombri ortogonali di quadrature, cornici ecc. Determinati questi, si può procedere alla battitura degli ornati e di altri particolari architettonici tramite spolvero. La tecnica dello spolvero è la stessa descritta da Cennino Cennini alla fine del ‘300 ed usata nei secoli da tutti i pittori murali. Il disegno occorrente viene ricavato dall’originale mediante ricalco su carta (oggi per comodità spesso si usa quella trasparente “da lucido”), e successivamente bucato con un grosso ago, seguendo rigorosamente le linee tracciate. Una volta collocato sul muro, nella giusta posizione, e battuto con un apposito tampone (un sacchetto in stoffa contenente una terra-colore in polvere), il foglio trasferisce il disegno sul muro attraverso i fori. Va da sé che uno spolvero può essere replicato più volte, identico a se stesso, con la ripetitività seriale che caratterizza ogni pattern decorativo, semplicemente spostando il foglio sul muro. Questa è la pratica odierna dell’esecuzione ad intonaco asciutto. Per quel che riguarda la tecnica a fresco, fino ai primi decenni del secolo scorso si usava ripassare con un chiodo, solcando l’intonaco, le linee delle lenze e degli spolveri, per evitare che l’umidità dell’arenino (lo strato di intonaco finale composto da grassello di calce e sabbia fine) e, in particolare, la causticità della calce, cancellassero o rendessero poco leggibile il disegno, prima della stesura del colore. L’uso del chiodo determinava anche un leggero ma efficace effetto tridimensionale, che spesso è ancor oggi di aiuto nel rilievo dei decori antichi.
Ad un osservatore superficiale, il disegno per la decorazione architettonica potrebbe apparire come una semplice, sottostante trama riportata, ed un ovvio ausilio tecnico in fase progettuale. In realtà, più ancora forse che in altri procedimenti artistici, esso è la struttura portante dell’intero apparato decorativo, e si rivela determinante soprattutto per quanto riguarda l’illusionismo dell’effetto finale, per ottenere il quale non ci si può affidare unicamente all’abilità pittorica dell’esecutore. Se ci si sbaglia nel valutare le dimensioni di un “soffitto” o di un “fianco”, nel tracciare la modanatura di una cornice o i raggi di curvatura di una voluta, il senso strutturale ed estetico può risultarne completamente stravolto. Va anche detto che nella fase di stesura del colore, in un certo senso, si continua a disegnare: infatti tutti gli elementi, sia lineari sia curvi (“fianchi”, “soffitti”, listelli, tori, gole, scozie, ecc.), che costituiscono le cornici, si realizzano, anche con il colore, tramite righe a tinta piena o sfumate a pennello.
Indicazioni bibliografiche: E. Forssman, Dorico Ionico Corinzio nell’architettura del rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 1973; S. Ghigino, La realtà dell’illusione , Milano, Hoepli, 2006; G. Rotondi, A. Simonetti (a cura di), Facciate dipinte. Conservazione e restauro, atti del convegno, Genova 15-17 aprile 1982, Genova, Sagep, 1984. In alto: Alfredo D'Andrade, Rilievo degli affreschi di Lazzaro Tavarone sulla facciata di Palazzo San Giorgio a Genova (particolare), 1870, penna, inchiostro e acquarello su carta, Torino, Museo Civico. Qui sopra, ai numeri 1, 2, 3: Cornice di ordine toscano in sezione, in visione ortogonale, nella rappresentazione tridimensionale del decoratore (disegni di Beatrice Giannoni). Sotto: Lazzaro Tavarone, Nicchia con figura, ornati e arma araldica dei Grimaldi, matita, penna e inchiostro acquerellato su carta, Genova, Gabinetto Disegni e Stampe di Palazzo Rosso.