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L’invasione delle ultraicone

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Il confronto con l’antico e in particolare col classico – cioè con quella tipologia di antico che trascende epoche e luoghi precisi per assurgere a modello canonico – è appuntamento ormai obbligato per gli esponenti delle correnti artistiche d’oggi, nei loro vari canali espressivi: dal multimediale all’installativo all’ambientale al fotografico. Naturalmente, la tendenza coinvolge anche critici, curatori, storici dell’arte, funzionari di museo. Da una parte, gli artisti possono omaggiare la grande tradizione, ricevendone luce riflessa. Dall’altra, studiosi e organizzatori hanno modo di movimentare opere celebri, di proporle in accostamenti estemporanei, di costruire intorno ad esse narrazioni e teorie. Insomma, il contemporaneo ha tutto l’interesse ad appellarsi ai buoni uffici del classico, e viceversa.

Il limite di questo circolo virtuoso (e forse anche la ragione del suo perpetuarsi) sta nel suo semplicismo. Il fatto che le epoche artistiche siano comunicanti fra loro non è garanzia che, solo per aver rielaborato oggi un’immagine creata da Tizio duemila anni fa, Caio sia davvero artista colto e credibile. Il fatto di riconoscere oggi in materie quali marmo, oro, avorio, pietre preziose, l’aura del classico, non significa che ricorrendo ad esse si possa ricreare ipso facto quella fascinazione, quel senso di immortalità. La cosa vale anche per le epoche più recenti: non basta, poniamo, riempire uno spazio espositivo di vecchie macchine da cucire o di cappotti o di valigie per poter strizzare l’occhio al Dadaismo, al Surrealismo e magari anche alla Shoah. Vi è in questo susseguirsi di eventi un culto delle immagini che scade nell’idolatria consumistica. Tutto diventa icona, nell’accezione creativa e glamour del termine. Ma il Progetto, il Disegno, l’Invenzione, dove sono?

In alto: Robert Wilson, The Death of Marat, 2013, videoinstallazione (www.youtube.com).
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