Decorazione è parola statutaria di questa rivista: “arte che sovrintende al decoro dei manufatti” è la definizione che ne abbiamo dato. Abbiamo anche identificato il suo “mezzo” (cioè lo strumento operativo o, per dirla al modo degli anni ’70, il medium) nell’ornato. Materia prima della decorazione non sono infatti i pigmenti o la pietra, come in pittura e scultura, ma il repertorio dei modelli ornatistici realizzabili nei più disparati materiali (si pensi al caso-limite dei decori in ossa umane di certe cripte seicentesche), che possono originare opere plastiche, pittoriche, ambientali o altro ancora. Unica fra le arti, la decorazione è totalmente svincolata da materiali specifici, poiché questi vengono scelti in base all’opportunità e allo scopo. Il decoratore è l’estensore di un progetto formale e il repertorio ornatistico è il suo strumento di lavoro, mentre l’esecuzione dell’opera può essere demandata ad altri.
Decorazione è quindi arte “maggiore”, responsabile della forma, e include l’ornato, arte “minore” e consequenziale, che le fornisce, per così dire, la “cassetta degli attrezzi”. Ne è una conferma la struttura didattica delle accademie novecentesche, che presentano un corso di Decorazione paritetico a quelli di Pittura, Scultura, Scenografia e – fino alla riforma universitaria attuata nel 1933 – Architettura. Eppure, nella riformata Accademia di Belle Arti bolognese di età napoleonica, tale indirizzo non compare, pur in presenza dell’importante corso di Ornatistica tenuto da Antonio Basoli 〈1〉. Ugualmente, nella trattatistica più antica si parla di ornato e di decoro, mai di decorazione. Andrea Palladio – e non è che un esempio – elogia Alessandro Vittoria come valente scultore, mai come decoratore 〈2〉. Quali i motivi di tale assenza?
Evidentemente, architettura, pittura e scultura, in quanto responsabili della “invenzione” dell’opera, assurgevano ad “arti” in senso proprio, mentre il disegno d’ornato, al pari di quello di figura o di paesaggio, emergeva solo in quanto competenze tecnica trasversale. Le competenze ornatistiche erano indispensabili per rendere congruo e decoroso qualunque intervento artistico avesse carattere pubblico. La spettacolare arte pubblica ottocentesca abbonda di esempi in tal senso, e tuttavia ci piace citare il caso-limite di Michelangelo Buonarroti, che nell’eseguire il Bacco ebbro ed altre opere per il collezionismo privato non si pose vincoli specifici, mentre al contrario, non appena fu chiamato a dipingere la volta della Cappella Sistina, elaborò, in forma di quadratura architettonica, un complesso apparato ornatistico, per contestualizzare degnamente le scene narrative. In tal senso anche Michelangelo potrebbe definirsi un decoratore, e così pure Palladio, sebbene la tradizione occidentale riconosca in loro due eccelsi maestri della scultura e dell’architettura.
Dunque, nella logica classica non aveva senso parlare di decorazione come arte a sé, perché i problemi di decoro venivano risolti in proprio da pittura, scultura e architettura. Semmai si trattava di stabilire di quali ornati queste arti intendessero servirsi, affinché i manufatti di loro produzione non risultassero indecorosi. Evidentemente, nel corso del secolo XIX sorse il bisogno di esplicitare ciò che in precedenza era implicito, intimamente connaturato alle arti figurative. Il fatto stesso che, ad un certo punto, si sia avvertita la necessità di formalizzare il termine “decorazione”, significa che i suoi presupposti tradizionali stavano venendo meno.
Il problema del decoro, come principio etico, è prerequisito essenziale alla realizzazione di qualsiasi manufatto. La soluzione si attua attraverso le normali arti, integrate da una tecnica specifica, l’ornatistica appunto. Se si abbatte un albero per farne una colonna o una trave, è ovvio che non basterà scortecciarlo, ma si dovrà dargli anche una forma e una finitura consone al luogo e alla funzione. In un contesto in cui prevale la manualità, per un abile carpentiere è più facile eseguire, in sede di finitura, scanalature o fregi, piuttosto che ottenere perfetti piani prismatici o cilindrici con una ossessiva piallatura. Allo stesso modo la pietra, una volta messa in opera, non può certo essere lasciata con la sbozzatura di cava a vista. E dato che comunque la si deve finire in opera, tanto vale approfittare dell’occasione per aggiungere le modanature o i fregi più opportuni. In linea di principio, quindi, nella tradizionale filiera artigianale, la decorazione era implicita nelle normali operazioni di finitura dei materiali: il suo costo risultava spesso più conveniente rispetto a finiture “lisce”, e le competenze occorrenti provenivano dalle arti già citate.
Nel momento in cui la nascente industria invase il mercato coi suoi semilavorati, la questione iniziò a porsi sotto una luce nuova e diversa. La putrella in ferro, in sé già rifinita, va semplicemente assemblata, operazione questa che richiede nulla più che generici carpentieri. Questo significa che il problema del decoro non è più risolvibile in itinere come coi materiali tradizionali, ma deve essere affrontato o a priori, in fase di stampaggio o di fusione, o a posteriori, con l’applicazione di placche e rivestimenti. Tale è il problema che il secolo XIX si trovò ad affrontare. Se, ai fini del decoro, lo scalpellino che pone in opera un blocco di pietra è perfettamente sovrapponibile allo scultore che lo orna, lo scultore che realizza modelli e stampi per ornare una colonna in ghisa destinata ad una stazione ferroviaria, è figura diversa sia dall’operaio che la mette in opera, sia dal disegnatore industriale che progetta il mero tubolare estruso che svolgerà l’identica funzione in un magazzino industriale. Anche il disegnatore industriale deve farsi carico del problema del decoro, ma con competenze culturali inferiori. Nel prodotto industriale, l’ornato non è una componente implicita ma un elemento separato, che si può “applicare” o meno.
È in questo scenario che comincia a porsi il problema della decorazione come arte specialistica, intesa a dare forma decorosa (eventualmente ornandoli) a materiali e manufatti nuovi, che, al momento, non si sa come trattare. Le vicende che portano dall’Eclettismo, che applica ai nuovi materiali gli stilemi classici, al Liberty che promuove l’integrazione fra gli uni e gli altri, all’ornatofobia del Razionalismo novecentesco, sono troppo note per dovervisi soffermare ancora una volta. Piuttosto occorre capire se la parola “decorazione” abbia ancor oggi una ragion d’essere, se cioè corrisponda a qualcosa di preciso o debba essere invece considerata un relitto storico. Punto chiave da cui prendere le mosse è che il problema del decoro è sempre aperto e sempre si pone, a monte della produzione di qualsiasi manufatto. Con buona pace delle farneticanti elucubrazioni di Adolf Loos, il decoro del prodotto industriale non dipende affatto dall’eliminazione dell’ornato. Il quale ornato, cacciato dalla porta quando si presenta nella sua qualità più classica ed obsoleta – i racemi, le foglie, le modanature – rientra ben presto dalla finestra ad opera dello stesso Loos, sotto forma di rivestimenti pregiati e piattabande cromatiche, ben evidenti in molti suoi edifici.
Per risolvere il problema del decoro, cioè della forma finale di un manufatto, bastano dunque le arti tradizionali o è invece necessario identificare e isolare un’arte specialistica? La risposta non può che essere duplice. Qualora continui a sussistere la possibilità di rifinire i materiali in itinere, pittura, scultura e architettura saranno più che idonee allo scopo, a patto, beninteso, di integrare le loro specifiche prassi con le necessarie competenze ornatistiche. Nel caso il problema debba invece essere affrontato a priori o a posteriori – come oggigiorno quasi sempre accade – il ricorso ad una figura specialistica, il decoratore, in grado di interfacciare tutte queste competenze con la prassi progettuale dell’industria, apparirà la soluzione più idonea. E’ il semilavorato a imporre la decorazione come arte specialistica, e in un’epoca come l’attuale, nella quale anche i materiali tradizionali quali il legno e la pietra si presentano in forma semilavorata e standardizzata, la decorazione è più necessaria e contemporanea che mai.
〈1〉 Vedi sull'argomento C. Nicosia, La didattica del Professore, in F. Farneti-E. Frattarolo (a cura di), Antonio Basoli. Ornatista, Scenografo, Pittore di paesaggio, catalogo della mostra, Bologna, Pinacoteca Nazionale, 2008, Bologna , Minerva, 2008, pp. 36-42. 〈2〉 A. Palladio, I quattro libri dell'architettura [1570], Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 2008, in part. libro II, cap. III, p. 109, dove il Vittoria è citato insieme a Bartolomeo Ridolfi, Anselmo Canera e Bernardino India come responsabile delle decorazioni di Palazzo Thiene a Vicenza. Sopra: Michelangelo Buonarroti, Giudizio universale (particolare), 1537-41, affresco, Roma, Cappella Sistina. Sotto: Dettaglio della partitura decorativa progettata da Owen Jones per la struttura metallica della stazione ferroviaria di Paddington a Londra (1852-55, architetto I. K. Brunel).