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L’ornamento è animista?

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Thomas Golsenne insegna Histoire des arts visuels presso l'École nationale supérieure d’art de Villa Arson, a Nizza. Studioso della storia dell'ornamento nella civiltà rinascimentale, moderna e contemporanea, specialista di storia dell'arte italiana del secolo XV, ha all'attivo numerose pubblicazioni, tra cui l'edizione francese del De Pictura di Leon Battista Alberti (con Bertrand Prévost, Paris, Seuil, 2004) e la monografia Carlo Crivelli, Paris-Arles, Actes Sud, 2014. Collabora a numerose riviste di storia ed antropologia dell'arte. Quello che qui presentiamo è un suo testo pubblicato in francese nel 2009 [«L'ornement est-il animiste?», Histoire de l'art et anthropologie, colloque international, Paris, Musée du Quai Branly, 21-23 giugno 2007, Paris, coédition INHA/Musée du quai Branly, «Les actes», 2009, mis en ligne le 27 juillet 2009. URL: http://actesbranly.revues.org/282. Publié dans Cannibalismes disciplinaires. Quand l'histoire de l'art et l'anthroplogie se rencontrent, dir. T. Dufrêne et A.-C. Taylor, Paris, INHA/Musée du quai Branly, 2009, pp.255-68]. Un sentito ringraziamento a Thomas Golsenne per averci autorizzato a tradurre e pubblicare il suo saggio. Tranne l'ultima, le immagini che corredano questa edizione italiana sono le stesse dell'edizione originale francese citata sopra.

Uno storico dell’arte studioso dell’ornamento si potrebbe paragonare ad un uccello che si occupi della vita dei pesci: è contro natura. Di fatto, l’idea di arte si è venuta costituendo in opposizione a quella di ornamento, al punto che Ernst Gombrich ha potuto affermare che la storia dell’arte moderna è la storia dell’espulsione dell’ornamento dalla sfera artistica. Da quando, nel 1435, Leon Battista Alberti collocò la pittura tra le arti liberali, le arti figurative andarono progressivamente distaccandosi dall’artigianato, e l’opera d’arte si vide attribuire una dignità superiore a quella dell’oggetto d’arte. La modernità, in questo senso, ha portato a compimento il percorso iniziato cinque secoli prima: scrivendo nel 1908 il suo saggio Ornamento e delitto, Adolf Loos non si limitò a redigere un manifesto del modernismo, ma portò tale movimento alle sue estreme conseguenze. In questo e in altri scritti coevi, egli afferma risolutamente l’incompatibilità dell’ornamento con la vita moderna, la produzione industriale e la democratizzazione. La liberazione dell’arte dall’ornamento viene in tal modo interpretata come il segno di un’emancipazione sociale e di un progresso civile:

«I tempi barbari in cui le opere d’arte venivano confuse con gli oggetti d’uso sono definitivamente superati. Per buona sorte dell’arte. Perché al diciannovesimo secolo sarà riservato un importante capitolo nella storia dell’umanità: a esso dobbiamo il coraggio di aver portato a una netta separazione tra arte e artigianato».

Non stupisce perciò che gli etnologi contemporanei di Loos si siano vivamente interessanti alle produzioni ornamentali dei popoli che all’epoca si usava definire “primitivi”: se il segno distintivo della civiltà occidentale moderna è l’assenza di ornamento nell’arte, allora la sua presenza non potrà che evidenziare il carattere primitivo delle altre società. Prendiamo ad esempio, come testimone ormai tardivo di quest’epoca, il Manuale di etnografia di Marcel Mauss, pubblicato nel 1947; in esso si legge che «l’ornamento è molto più diffuso in queste società [primitive] che presso di noi»; oppure che «nell’insieme si direbbe che la non-decorazione degli oggetti mobili sia più accentuata nelle nostre società occidentali. La decorazione è attestata a partire dall’Aurignaziano». Insomma, l’ornamentazione sarebbe una tendenza universalmente diffusa, cui solo la nostra società moderna si sarebbe opposta. Eppure, il punto di vista dell’antropologo sull’ornamento è diametralmente opposto a quello dello storico dell’arte o dell’artista modernista: per il primo, alla base del proprio repertorio estetico vi è l’ornamento; per gli altri due esso è un peccato.

In ogni caso, al principio del secolo XX tutti concordavano nel riconoscere l’importanza dell’ornamento, quantomeno nelle epoche più remote dell’umanità. Così come le società primitive rappresentano uno stadio di civiltà meno avanzato del nostro, allo stesso modo, si riteneva, l’ornamento rappresenta lo stadio primitivo dell’arte, l’arte nella sua forma arcaica. È l’opinione di Loos, che scrive:

«L’impulso a decorare il proprio volto e tutto quanto sia a portata di mano è la prima origine dell’arte figurativa. È il balbettio della pittura».

Quest’idea era già presente in Gottfried Semper, i cui lavori degli anni cinquanta dell’800 sull’origine dell’architettura hanno ingenerato un tono completamente nuovo nella storia dell’arte – un tono antropologico: «È significativo che molte manifestazioni ornamentali arcaiche e selvagge si siano perfezionate nel corso dei secoli presso i popoli civilizzati, e continuino a persistere, perlomeno tramite allusioni simboliche».

Questo “tono antropologico” esprimeva una volontà di rottura con la storia dell’arte insieme postwinckelmanniana (fondata sulla supremazia assoluta dell’arte greca e, più in generale, dell’arte europea) ed erudita, che dominava nei paesi di lingua tedesca: l’avvicinamento all’antropologia consentiva di dare dignità filosofica alla storia dell’arte. Tra gli eredi di Semper, Alois Riegl, inventore del concetto di Kunstwollen, fu il primo a utilizzare un metodo comparativo che mirasse a superare la visione progressiva della storia dell’arte tradizionale. Riegl non esitò a mettere in relazione la storia dell’arte con la storia delle arti decorative, lo studio dell’arte europea con quello dell’arte primitiva. Il suo primo grande libro, Questioni di stile (1894), nasce da questo approccio antiaccademico e pone le basi di una storia dell’ornamento, che sia anche una storia delle origini antropologiche dell’arte. In particolare egli scrive:

«Ci è infatti apparso assai più elementare del bisogno di proteggere il corpo con prodotti tessili, quello di adornarlo».

Raccogliendo l’essenziale del pensiero di Riegl, Wilhelm Worringer riprese quest’idea in Astrazione ed empatia (1911), scorgendovi il manifestarsi del Kunstwollen:

«È proprio dell’arte ornamentale il fatto che il volere artistico assoluto di un popolo trovi nei suoi prodotti l’espressione più limpida e pura».

In altri termini, l’ornamento non è semplicemente un precedente storico dell’arte, come sostenevano Riegl o Mauss: secondo Worringer, il posto che esso occupa nell’espressione artistica di una società, quale essa sia o comunque si situi nel tempo e nello spazio, non è primitivo ma primordiale.

Vuoi perché conoscevano gli studi degli etnologi della loro epoca, vuoi perché applicavano ai propri interessi artistici un approccio antropologico, accadeva che degli storici dell’arte come Riegl e Worringer considerassero l’ornamento un oggetto di studio di primaria importanza e rivisitassero la storia dell’arte occidentale dal punto di vista ornamentale; di qui i celebri studi di Riegl sull’arte tardoromana e barocca e il saggio di Worringer sull’arte gotica – epoche artistiche in cui l’ornamento gioca un ruolo primario e che proprio per questo motivo erano reputate decadenti.

Nondimeno, la loro rivalutazione dell’ornamento e delle sue incarnazioni storiche trovava un limite in due idee tipiche di quell’epoca. La prima, come abbiamo visto, consisteva nel credere che l’ornamento fosse più primitivo dell’arte. La seconda, che l’ornamento fosse legato all’astrazione, mentre al contrario l’arte fosse legata alla figurazione. Nel dibattito sull’origine dell’arte, Riegl propendeva per un’origine figurativa – ogni ornamento, anche il più geometrico, sarebbe la stilizzazione di un motivo figurativo. Worringer propendeva per l’ipotesi dell’origine astratta dell’arte – l’ornamento ha la meglio sulla figura allo stesso modo come, al cospetto della natura, il sentimento astratto precede il sentimento empatico.

L’associazione tra ornamento e astrazione era all’epoca, ed è ancor oggi, una convinzione comune; essa ricompare ad esempio nel libro di Alfred Gell Art and Agency. Essa deriva senza dubbio dal pregiudizio occidentale per il quale non si dà arte veramente evoluta (vale a dire non ornamentale) che non sia figurativa; nonché dalla constatazione che, prima del secolo XX, solo nei motivi ornamentali si potevano osservare forme astratte.

Tavola tratta da K. von der Steinen, Die Marquesanen und ihre Kunst, Berlin, Reimer-Vohsen, 1925-28, vol. I (qui nell’edizione francese).

Tuttavia è facile constatare che i motivi ornamentali non sono né astratti né figurativi a priori. Si potrebbero citare numerosi esempi, desunti in primo luogo da tradizioni artistiche non europee, in cui l’ornamentazione è interpretabile in entrambi i sensi. I tatuaggi degli abitanti delle isole Marchesi studiati da Karl von den Steinen, offrono un primo caso esemplare. A prima vista, questi tatuaggi sembrerebbero astratti; in effetti, per la maggior parte sono una rappresentazione codificata di animali o personaggi: papua = recinto; kake = arco; kea = tartaruga; mata hoata = sguardo; puhi = anguilla; pohu = eroe mitologico. Si tratta di una scrittura al tempo stesso corporea, pittografica ed ornamentale.

Più familiare all’occhio occidentale, l’arte islamica è ritenuta aniconica, dunque astratta e ornamentale, a causa del divieto religioso di rappresentare figure viventi. C’è un gran numero di esempi che dimostrano come gli artisti islamici abbiano saputo destreggiarsi sul sottile confine che separa astrazione e figurazione. Un pannello ligneo di provenienza egiziana, databile ai secoli IX-X e avente funzione di rivestimento decorativo, reca un motivo ornamentale astratto, che può anche esser visto come un profilo d’uccello: il falegname giocava con le abitudini visive dello spettatore, e il gioco continua ancor oggi: lo spettatore egiziano vedrà in primo luogo gli arabeschi astratti, lo spettatore europeo coglierà più facilmente l’immagine dell’uccello.

Né totalmente astratto, né completamente figurativo: l’ornamentale potrebbe piuttosto apparire come una terza via tra figurazione ed astrazione: una tensione tra l’una e l’altra, una tendenza all’astrazione quando si tratta di figure, una tendenza alla figurazione quando si ha a che fare con forme astratte. Dimodoché l’immagine ornamentale non conta solo per ciò che rappresenta o per ciò che significa. Non è fissata in una forma che ne limiti il senso. L’ornamento fa dischiudere l’immagine. Ad esempio, una figura ornamentalizzata è affetta da una tendenza all’astrazione: tanto il suo contorno in quanto figura, quanto la sua definizione come forma referenziale, entrano in crisi in seguito al trattamento ornamentale. Worringer aveva già osservato il fenomeno in relazione all’arte gotica: la linea gotica, egli dice, non è né astratta né figurativa. Essa non fa propria né la tendenza, naturale ad esempio per gli Egizi, alla geometria, alla razionalizzazione matematica, né quella, più frequente presso i Greci e i moderni, all’empatia con le forme organiche: è dotata di una vita “non organica”.

Villard de Honnecourt, foglio dal “Livre de portraiture”, 1230 circa.

Nel suo taccuino, l’architetto Villard de Honnecourt mostra la genesi di una figura ornamentale, vegetalizzata, quale si poteva spesso vedere nella scultura gotica. Tutto si svolge come se la figura si trovasse ad essere dotata di un’estensione che la travalica, di una potenza che appare eterogenea (la forza germinativa del regno vegetale); quanto alla sua eterogeneità, tale potenza sembra rinviare ad una sorgente invisibile, irrappresentabile, trascendente. Nel contesto religioso di una chiesa gotica, gli spettatori del tempo non avevano difficoltà ad interpretare come divina l’origine di questa sorgente. La potenza di Dio si manifesta nell’ornamento.

Il Cantico dei Cantici Rothschild, manoscritto renano del 1300 circa, offre varie esemplificazioni di questo concetto. Il foglio 84 presenta una Trinità ornamentale: le tre figure divine sono legate l’una all’altra dall’intrecciarsi di un drappo bianco, una delle cui estremità ha la forma della colomba dello Spirito Santo: è un modo particolarmente originale – proprio perché ricorre ad una soluzione abitualmente riservata ad usi più decorativi – di visualizzare il mistero delle tre Persone unite in una sola Sostanza.

Cantico dei Cantici Rotschild, Francia, secolo XIV.

Esaminiamo subito un altro caso di figurazione. Un utensile la cui forma risponde di norma alla funzione (ed è ciò che lo rende utile), non appena viene ornato comincia a smarrire la sua netta definizione funzionale: il valore estetico ne mette a repentaglio il valore d’uso. Adolf Loos sosteneva che noi (i moderni) non abbiamo più la disposizione d’animo che si richiede per mangiare in un piatto decorato con un Rapimento di Proserpina. Voleva forse sottolineare la contraddizione insita in un utensile ornato – una contraddizione che il primo proprietario del piatto riusciva ancora a tollerare, forse perché meno razionalista di quello attuale, per il quale la qualità estetica è divenuta funzione esclusiva di una certa classe di oggetti (le opere d’arte). Certo vi sono dei casi-limite in cui l’oggetto utile è talmente decorato da risultare inutilizzabile, come i piatti di portata di Bernard Palissy, dove le decorazioni non ricoprono solo la superficie dell’oggetto, ma ne debordano, come se i legumi, i pesci ed altri animali che le compongono, vi fossero realmente posati sopra. Ma quand’anche ben più modesto, il minimo ornamento rischia di trasformare un utensile in opera d’arte. L’assenza di ornamento che regna nel design dal Bauhaus in poi, è semplicemente un altro modo di ornare l’oggetto d’uso, di sfumarne la funzione tramite la forma – tant’è che gli oggetti di design sono ora esposti nei musei.

Così, nel momento stesso in cui si pone al confine tra forma figurativa e forma astratta, l’ornamento introduce una tensione dialettica tra quelle forme e l’oggetto. L’ornamento si annida negli interstizi. Nel secolo XIX i repertori di motivi ornamentali si sono andati moltiplicando, in ossequio allo spirito tipologico e sistematico dell’epoca. E all’improvviso è venuta meno la natura interstiziale e mutevole dell’ornamento. L’ornamento non è una forma, è un rapporto. La sua grande forza sta nel fatto che non c’è cosa che non possa diventare ornamento o ricevere ornamento: dal Rapimento di Proserpina su un piatto alla Genesi dipinta sulla volta della Cappella Sistina. L’ornamento non ha limiti, è esso stesso il superamento dei limiti.

Insomma l’ornamentalità – il carattere ornamentale – di una forma o di un oggetto li rende eccessivi rispetto alla loro definizione, alla loro funzione: in una parola, alla loro essenza. Tale eccesso si può interpretare come un surplus inutile, perfino nocivo – ed è questa l’interpretazione convenzionale, occidentale, modernista: «less is more, more is less», come diceva Mies van der Rohe. Ma già nel secolo XV, Alberti definiva la bellezza come ciò a cui non si può aggiungere né togliere nulla, senza intaccarne la perfezione finale. È una definizione vagamente tautologica, che lascia scarso spazio all’aggiunta ornamentale, e che deriva dall’idealismo neoplatonico di Cicerone. Questi era in effetti un cultore di questo tipo di definizioni in tema di Bellezza, e Alberti era un suo attento lettore. Come ogni idea platonica, anche questa si definisce in essenza, per la sua identità a se stessa: la Bellezza è bella. L’ornamento, in quanto supplemento, non vale a definire un’essenza; semmai introduce il tarlo della differenza nel dominio dell’Identico.

L’eccesso ornamentale è stato rigettato dall’estetica classica in base a questi principi essenzialisti. Ma lo si è anche potuto interpretare in un senso più positivo – a suggerircelo vi sono in Occidente buona parte dell’antropologia e un settore minoritario della filosofia – in quanto manifestazione della potenza della forma ornamentalizzata o dell’oggetto ornato. L’ornamento intensifica la forma o l’oggetto ornati, li demoltiplica entro se stesso. Questa intensificazione assume due forme principali: la frattalizzazione e la piegatura.

La frattalizzazione è il processo di demoltiplicazione di un oggetto al proprio interno, incastonandovi oggetti di forma identica, come in una matrioska russa o in una cipolla. La decorazione dell’Alhambra, a Granada, ne è un chiaro esempio: la volta è decorata con una muqarna, una struttura frattale in cui ciascuna nicchia si compone di nicchie più piccole, e così via. In tal modo, il motivo ornamentale risulta identico alla struttura architettonica: l’assimilazione della struttura alla decorazione è frequente nell’arte islamica, ma di difficile comprensione in Europa dove, come nel trattato di architettura di Alberti, si è abituati a pensare a una struttura portante “nuda”, “vestita” poi con l’ornamento.

Decorazione a muqarna, Sala de los Abencerrajes, sec XIV, Alhambra, Granada (foto © Thomas Golsenne).

L’arte europea ha però sviluppato, soprattutto nelle età ornamentali più care a Riegl e Worringer, un’altra forma di intensificazione dell’oggetto grazie all’ornamento: la piegatura. L’esempio della Santa Teresa di Bernini è troppo noto perché ci si possa dilungare a commentarlo. Mi limiterò a soffermarmi sul fatto che il corpo della santa è letteralmente immerso nelle pieghe del suo abito: è come se si smaterializzasse, che è un modo per suggerire la natura spirituale dell’estasi della santa; ma al tempo stesso, le pieghe dell’abito fanno pensare che il corpo si estenda oltre i propri limiti, un’estensione la cui causa è certamente divina: le pieghe nascondono e, al tempo stesso, mostrano.

L’ornamento sprigiona effetti di movimento, di irradiazione, di vita; l’intreccio, ad esempio, è un procedimento che dà l’impressione di una linea labirintica in cui l’occhio si smarrisce; una linea senza inizio né fine, dunque autonoma, dotata di vita propria. Un interessantissimo caso di intreccio è dato dalla miniatura altomedievale irlandese: i monaci miniaturisti davano vita a labirinti di linee in cui il motivo sacro della croce veniva ad essere completamente dissimulato. Per rintracciare la figura della croce, in senso sia visivo che spirituale, bisognava trascorrere lunghe ore in contemplazione dell’immagine geometrica e in meditazione, proprio come i monaci buddhisti col loro mandala.

In sintesi, l’ornamentalizzazione di una forma o di un oggetto consente di caricarli di una certa potenza. L’ornamento offre la possibilità di animare oggetti inanimati, anche se i suoi effetti vengono spesso attribuiti, in quel caso concreto o in quella specifica situazione culturale, ad una causa trascendente o all’oggetto che riceve su di sé l’ornamento. L’arte cristiana medievale, in gran parte fondata sull’opposizione tra figura umana e ornamento divino, ne offre diversi esempi. Tale processo, nel libro già citato, Gell lo chiama attribuzione di agency, che si potrebbe tradurre “animazione”, vale a dire che l’oggetto animato dall’ornamento viene ad essere considerato come un attore vivente, che intrattiene relazioni sociali con ciò che lo circonda. Un oggetto-attore che, grazie all’ornamento, attira su di sé gli sguardi, irradia verso gli altri: la sua potenza coincide col suo campo d’attrazione, con l’estensione della sua aura.

In questa prospettiva, l’importanza di un oggetto o di una persona non si misura con le sue qualità interiori, con la profondità del suo essere, ma con la sua potenza ornamentale, vale a dire con la sua capacità di irradiare, di entrare in contatto con un’ampia cerchia relazionale. Un tale apprezzamento, esteriorizzato e sociale, dell’individuo, una tale importanza accordata al sembrare piuttosto che all’essere, possono urtare la nostra sensibilità occidentale, abituata a pensare che “l’abito non fa il monaco”, che il valore individuale si misura con la profondità dell’essere interiore. E tuttavia, dal punto di vista antropologico, un’ontologia fondata non sull’essere ma sulla singolarità dell’apparire ha essa pure una sua logica, ed ha anche un nome: è l’animismo. Secondo la definizione di Philippe Descola, si può riconoscere come animista la società che attribuisce un’identica interiorità a tutti gli esseri che vivono nelle stesso ambiente (umani, animali e vegetali senza distinzione), e che distingue gli individui unicamente in base ai tratti fisici, esteriori: un albero è un essere umano travestito da albero, un giaguaro un essere umano travestito da giaguaro, e così via. Tant’è che l’essere umano non è mai solamente un essere umano: il suo corpo nudo non basta a definirlo nella sua totalità, cioè esteriormente e socialmente; esso non può fare a meno di un abbigliamento che lo qualifichi come cacciatore, come bambino, come madre, e così via.

Deriva da qui l’importanza dell’abbigliamento e, più in generale, dell’ornamento, nelle società animiste. L’abbigliamento è indispensabile per conferire all’uomo un posto nella e per la società, in altre parole, affinché egli possa esistere. Un ricco abbigliamento non è segno di ricercatezza, di vanità; è il riconoscimento, da parte della società, della potenza dell’individuo che lo indossa. Di qui l’importanza dell’animalità nell’abbigliamento animista: essendo in relazione in primo luogo con animali cui attribuiscono la propria stessa “umanità”, gli uomini, per meglio assumerne le qualità, possono decidere di prendere un aspetto animale. Il cacciatore o il guerriero prendono l’aspetto del giaguaro, del leone o dello sparviero, eccellenti predatori, per poter letteralmente entrare nella pelle del predatore. Si coprono il corpo di segni o di gioielli che denotano la loro nuova natura, come copricapi di piume d’uccello, collane e ornamenti nasali fatti di zanne e denti di animali – e la molteplicità di specie animali presenti nell’abbigliamento guerresco evidenzia la loro plasticità e superiorità nei confronti di tutti gli esseri dotati di una sola forma.

In Indonesia, il culto degli antenati si può legittimamente ascrivere all’animismo, nel senso che, in determinate circostanze, i vivi possono assumere l’aspetto dei morti. Vi sono scudi dell’Irian Jaya decorati con l’immagine di un antenato, da cui il guerriero trae la propria forza: di fronte al nemico, l’immagine dell’antenato prende il posto di quella del guerriero.

Secondo Philippe Descola, niente si oppone all’animismo più del naturalismo, ossia il regime ontologico-sociale in cui viviamo, quello che produce le singolarizzazioni sociali e l’interiorità di ciascun individuo e in cui, peraltro, l’ornamento è stato relegato ai margini della cultura. Ma sarebbe sbagliato pensare che l’animismo sia ignoto alla società occidentale. Non è fuori luogo, ad esempio, paragonare uno scudo dell’Irian Jaya alle armature medievali europee: anche gli scudi dei cavalieri recano l’immagine cifrata, ornamentalizzata, della stirpe di antenati da cui questi traggono la loro potenza.

Ma un episodio culminante dell’animismo si verifica, a mio parere, proprio nel momento in cui generalmente si ritiene che nasca lo spirito moderno, ovvero l’individualismo e il naturalismo: il Rinascimento italiano. Poche sono infatti le società in cui le apparenze, ivi comprese le illusioni prodotte dall’arte, sono altrettanto importanti. Nel Rinascimento non si lascia traccia di sé se non compiendo gesti degni di nota, imprese ammirevoli, insomma distinguendosi agli occhi altrui; la vita viene vissuta in quanto opera d’arte o, come scrive Jacob Burckhardt, si vive per dare la miglior immagine possibile di se stessi. Due esempi: nella sua Autobiografia, Alberti, “uomo universale” come lo definisce Burckhardt – uomo in grado di fare ogni cosa e di assumere ogni maschera, si direbbe antropologicamente – dice di essere attentissimo al proprio contegno in pubblico:

«[…] in ogni aspetto della sua vita, in ogni gesto, in ogni parole volle sia essere sia sembrare degno della benevolenza dei probi […]».

Baltazar Gracian, due secoli più tardi, farà propria una simile “estetica dell’esistenza”, per riprendere un’espressione di Michel Foucault:

«Ti fu padre l’Artificio, il Chirone della Natura; la sua premura ti produsse per portare ogni cosa alla perfezione; senza di te le più grandi imprese falliscono e le più alte opere sfumano».

Con questa metafora mitologica dell’animismo, l’Artificio “Chirone della natura”, mi avvio alla conclusione. Praticando la comparazione antropologico-storica tra diverse manifestazioni dell’animismo in Indonesia, in Africa o nell’Europa rinascimentale, non ci si stupisce di ritrovare ovunque gli stessi tratti comuni. Per esempio, l’animalità insita nell’abbigliamento del guerriero: la differenza tra l’effigie del dio della guerra Kuka’ilimoku delle Hawaii, una testa mostruosa composta di piume, fibre vegetali, denti di cane e madreperla per gli occhi, e le armature animalizzate di moda presso le corti principesche rinascimentali, è probabilmente assai meno marcata di quanto potrebbero farci pensare le nostre abitudini visuali, l’organizzazione dei nostri musei e delle discipline universitarie. Nell’uno e nell’altro caso, una tenuta guerresca da parata, priva di reali funzioni difensive, trasforma colui che la porta nell’incarnazione di un’entità animale che accresce la sua potenza individuale.

L’esempio della generazione dei Riegl e dei Worringer dovrebbe esserci di modello per sviluppare questo tipo di comparazioni trans-culturali e trans-storiche, ed arrivare così a tracciare i contorni generali di una antropologia storica dell’ornamento.

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In alto: Elmo a visiera (particolare), Milano o Brescia, 1550 circa, acciaio, oro e argento, New York, Metropolitan Museum (Metmuseum/Wikimedia Commons). Sotto: Arte delle Isole Hawaii, Il dio Kuka'ilimoku, sec. XVIII, scultura polimaterica, Göttingen, Georg August Universität, Collezione Cook/Forster (Lebrac/Wikimedia Commons).

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