Tra le azioni primarie attraverso cui l’uomo dichiara la propria identità vi è, da sempre, la produzione di immagini: di sé, del proprio mondo, delle proprie divinità. Primo e più classico esempio di questa “discontinuità ontologica” (la definizione è di Jacques Maritain) rispetto a tutte le altre specie viventi, è il cacciatore preistorico che afferra un frammento di legno combusto e disegna sulle pareti di una caverna. Ciò vale anche a giustificare, molto meglio delle sottili disquisizioni teoriche di età rinascimentale e moderna, quella sorta di primato che, a dispetto di qualunque modificazione culturale e tecnologica, continuiamo a riconoscere alla pittura sulle altre arti. Tale primato riposa appunto sull’impareggiabile mix di immediatezza esecutiva ed efficacia espressiva che l’atto del dipingere racchiude in sé, sin dalla notte dei tempi.
Da Altamira e Lascaux ad oggi molte cose sono cambiate. Nel nostro sentire comune, tela e colori stanno all’uomo moderno come il legno bruciato e la parete rocciosa stavano al cacciatore paleolitico. Ma la necessità primaria non cambia: l’uomo deve sempre dichiarare a sé e ai suoi simili la propria identità. Altre culture, meno individualiste di quella moderna, hanno privilegiato altre superfici pittoriche: dal vasellame alle stoffe al papiro alla corteccia. Per l’uomo moderno, il “quadro” è l’oggetto-chiave della manifestazione del Sé: “quadri” sono i testi fondamentali della cultura occidentale, “quadri” sono le tesi delle avanguardie novecentesche, “quadri” sono gran parte degli oggetti circolanti nel mercato dell’arte, “quadri” sono la quasi totalità di quanto è esposto nel circuito delle grandi mostre visitate da folle imponenti.
Tuttavia, di fronte all’oggetto “quadro” la cultura contemporanea presenta un paradosso: i giovani non dipingono più (o dipingono poco) e gli anziani che continuano a farlo riscuotono interesse solo in cerchie ristrette, cooptate alle loro mostre. Mentre l’opinione pubblica rincorre i “quadri” storici per ogni dove – da un museo all’altro, da una mostra all’altra – al tempo stesso nessuno sembra davvero convinto che il “quadro” possa essere oggi uno strumento per la manifestazione della propria identità. Né i giovani, che appunto ne producono sempre meno, né gli anziani che continuano a riprodurre stereotipi otto-novecenteschi, né tantomeno le moltitudini distratte che affollano mostre ed inaugurazioni. Nell’epoca dell’esaltazione del “quadro” come oggetto, si assiste alla sua inarrestabile delegittimazione come strumento culturale. Il manufatto che per efficacia e facilità di esecuzione è stato sempre considerato il primo ed essenziale strumento di manifestazione del Sé, viene oggi misconosciuto proprio in quanto tale.
Di qui il secondo fattore di delegittimazione culturale dell’oggetto “quadro”. Il “mostrismo”, l’iper-produzione psico-dilettantistica, sono stati una manna per una nutrita schiera di venditori, felici di poter finalmente proporre “quadri” esenti da vere “idee”. Il mercato delle opere d’arte, presentato come realtà sovrana, è stato così trasposto dal piano fisico della compravendita di beni a quello metafisico del “Sistema dell’arte”. E in forza di ciò si è arrogato il diritto di stabilire cosa è arte, equivocando sistematicamente il Sé con l’Io. La confusione dei piani, cioè lo spacciare per manifestazione del Sé ciò che è solo esternazione dell’Io, è stata la via attraverso cui il Sistema dell’arte ha perpetrato nell’ultimo trentennio una catena di truffe economico-culturali che hanno azzerato non solo il mercato artistico (quello reale), ma anche l’idea stessa di Arte. Il collezionista che nel recente passato ha speso cifre importanti per acquisire documenti della cultura novecentesca, ora che la crisi presenta il conto e deve monetizzare i propri investimenti, scopre che il lucente oro zecchino comprato a caro prezzo era in realtà “oro di Bologna”, definizione che nella vulgata corrente indica l’ottone, cioè le “patacche”.
Su un sistema artistico collassato a causa delle proprie contraddizioni interne, si è poi inserito un terzo fattore delegittimante: le nuove tecnologie. La prima e più antica, la fotografia, era già stata metabolizzata dalla cultura artistica, che le aveva riservato uno spazio tra le arti figurative, come surrogato della pittura veristico-naturalistica. Chi oggi a qualunque titolo vuole ritrarre la realtà fa una fotografia, non dipinge più un “quadro”. Le moderne tecnologie digitali hanno poi aggiunto ulteriori possibilità di elaborare l’immagine, la quale, affrancata dalla carta fotosensibile, insegue sempre più da vicino la forma “quadro”. Nel frattempo, però, altre tecnologie sono subentrate. Se “quadro” è un’immagine fatta con lo strumento più a portata di mano, allora oggi questo strumento non può che essere il telefono cellulare. La rivoluzione informatica ha messo a disposizione del grande pubblico apparecchiature in grado di svolgere a livello domestico funzioni un tempo altamente specialistiche (scrittura, videoproduzione, editoria, disegno, eccetera). I giovani non producono più “quadri” perché matite e pennelli non sono più i primi strumenti con cui vengono a contatto, e ciò fa sorgere alcune domande. Con iPod, smartphone e portatile si può davvero rappresentare il mondo, manifestare il proprio essere, estrinsecare le proprie origini? Le tecnologie informatiche consentono di perpetuare il gesto originario e “totale” del cacciatore preistorico munito di un pezzo di legno carbonizzato? Limitiamoci per ora a constatare che, a fronte della potenza rappresentativa di tali mezzi, il “quadro”, inteso come manufatto, ha (almeno in parte) perso la battaglia sul piano dell’immediatezza esecutiva. Quanto al primato espressivo, però, la partita è ancora tutta da giocare, e su più fronti.
Tentiamo di spiegarne i motivi. Innanzitutto, l’equivoco che confonde il concetto di “manifestazione del Sé” con quello di “espressione dell’Io”. Il primo è il mezzo personale per affermare principi identitari comuni, il secondo è il fine ultimo dell’uomo solo con se stesso. Ma una cosa è esprimere un sentire comune, tutt’altra è dar corpo alle proprie nevrosi. La prima è progetto culturale, la seconda attività psicotica. Il “quadro” è vincente come oggetto perché consente di creare un’immagine con ciò che è a portata di mano, ma se il suo fine si riduce al diletto o alla psicoterapia, alla facilità ed economicità di esecuzione difficilmente potrà corrispondere una effettiva rilevanza artistico-culturale. Il dilettantismo psicotico che, nel solco delle avanguardie, ormai da oltre un trentennio ha spopolato in campo artistico, ha prodotto il completo degrado della cultura figurativa. Il problema non è di linguaggi o di tecniche ma di contenuti. Con gli attuali materiali e le trovatine linguistiche di stampo tardonovecentesco, anche una scimmia può eseguire un “quadro”, con tanto di avallo critico. Ma se l’invenzione avanguardista conservava quantomeno i caratteri della tesi identitaria, dove l’artista era totalmente in gioco, a volte anche a rischio della vita, per lo psico-dilettantismo attuale essa è nulla più che una fonte normativa, grazie alla quale perseguire una burocratica e tranquilla legittimazione culturale. Ormai da decenni si dibatte di mostre, cataloghi e critici, ma non una parola viene spesa su cosa sia “Arte” e sul perché la si faccia. Un confronto tra il livello della cultura artistica attuale e il tenore del dibattito avanguardista sviluppatosi fra otto e novecento evidenzia il baratro che separa i due momenti storici. Quelli prodotti oggi, pur essendo in quanto oggetti dei “quadri”, tutto sono tranne una manifestazione del Sé, e il gusto dei fruitori, ovviamente, si regola di conseguenza (“Scusi, ne avrebbe uno giallo? Sa… il mio divano…”). Cos’è l’Essere? Cos’è l’Uomo? Cos’è la Natura? Ovviamente, non una di queste domande fa breccia nello psico-dilettantismo attuale, che giace accovacciato sui morbidi luoghi comuni nichilistici, sotto la calda coperta della sociologia, per ritemprarsi dalle fatiche di una estenuante attività espositiva.
Primo fronte: gli standard. Dopo ventimila anni le pitture di Altamira e Lascaux sono ancora visibili, fruibili e, con ogni probabilità, comprensibili. I bisonti preistorici sono ancor oggi sotto gli occhi di tutti, ma chi riesce più a leggere i dati archiviati nei rotoloni di nastro magnetico dei primi computer IBM? Eppure non sono trascorsi che pochi decenni.
Secondo fronte: i costi. E’ vero che l’iPod è un oggetto di uso quotidiano, ma è tutt’altro che economico. Con buona pace del mito dell’immediatezza, l’informatica dedicata all’espressione del Sé richiede una mediazione sia culturale che economica tutt’altro che trascurabile. Per passare dalle operazioni-base a funzioni più specializzate occorrono programmi specifici, che implicano strumenti più potenti, che necessitano a loro volta di periferiche avanzate…
Terzo fronte: i contenuti. E’ vero che con le attuali tecnologie si è sempre “connessi”, ma a cosa? La valanga di realizzazioni multimediali veicolate dalle nuove tecnologie rappresentano effettivamente una manifestazione del Sé o sono piuttosto la manifestazione di un sociologismo e di una goliardia globalizzate? Questa montagna di immagini elettroniche partorisce il topolino di una identità comune o è solo la manifestazione di un’afasia collettiva?
Molti indizi fanno ritenere che l’oggetto “quadro” sia ben lungi dall’aver esaurito il proprio ruolo e che, anzi, il dilagare delle nuove tecnologie gli abbia conferito una nuova ragion d’essere, un po’ come è avvenuto al libro che solo pochi anni fa pareva destinato a soccombere all’informatizzazione. A patto che, appunto, l’oggetto “quadro” torni ad essere ciò che deve essere, ovvero manifestazione del Sé. In una parola, Arte. L’iperproduzione di immagini multimediali, le velleità della fotografia di assurgere a “quadro”, l’affannosa rincorsa ai veri “quadri” in ogni mostra storica, la noiosa e burocratica iperattività degli psico-dilettanti, stanno appunto a dimostrare che l’oggetto “quadro” ha ancora molta strada da percorrere. E che, al contempo, nessuno tra gli attori attualmente in scena è cosciente della necessità, storicamente e antropologicamente irrinunciabile, di pensare il “quadro” come manifestazione del Sé. Ma questo è ovviamente un altro discorso.
In alto: impronte di mani ottenute soffiando colore, Cueva de las manos, 13000-9300 a.C. circa, provincia di Santa Cruz, Argentina (foto © Javier Etcheverry, VWPICS, REDUX). Sotto: pittura parietale con figura umana e bisonte, Grotte di Lascaux, 20000 a.C. circa.