Il convegno-mostra dal titolo Genua Picta, che nel 1982 diede l’avvio allo studio (prevalentemente nell’ambito del restauro) delle facciate dipinte genovesi, non solo sollevò un ampio dibattito accademico, ma pose anche il problema dell’estinzione dell’antica arte dei frescanti e, quindi, della sua riproposizione nella contemporaneità. A trent’anni di distanza il dibattito resta aperto, ma le scuole per la formazione dei nuovi decoratori e l’esperienza diretta nei cantieri sorti in varie occasioni di riqualificazione urbana (Expo 1992, G8 2001, Genova Capitale della Cultura 2004), hanno già dato risposte più o meno valide alle istanze di allora.
La storia della decorazione architettonica dipinta a Genova è ricca di addentellati culturali, sociali, economici, politici. Essa comincia nella seconda metà del secolo XV, quando la ricca aristocrazia mercantile riunita nelle Compagne, i consorzi commerciali che daranno poi vita alla Repubblica, dà inizio alla trasformazione del centro medioevale. Trasformazione che culminerà nei secoli XVI-XVII con il completamento di buona parte degli immobili ubicati nelle odierne vie Garibaldi e Balbi, oltreché di palazzi, chiese e ville suburbane. La politica delle alleanze matrimoniali tra le grandi famiglie incide sugli edifici e sul tessuto urbano nel suo insieme, dando luogo ad accorpamenti, redistribuzioni di spazi, chiusure di zone porticate. Di qui la necessità di restituire decoro, con opportuni interventi pittorici, ai nuovi, poco aggraziati prospetti a parallelepipedo.
Le maestranze, provenienti in buona parte dalla Lombardia, apportano un raffinato gusto mantegnesco. Le campiture del bianco e luminoso intonaco a marmorino vengono delimitate con fregi a girali, grottesche, candelabre, cornici modanate, e con l’inserzione di motivi classici quali ovoli, foglie d’acanto, dentelli. Ne sono ancora visibili esempi restaurati nelle piazze delle Vigne, San Matteo, Sauli ed Embriaci. Con l’inizio del secolo XVI, alle ristrutturazioni subentra una vera e propria espansione urbanistica.
La nuova Repubblica nasce grazie alle spregiudicate manovre politico-militari dell’ammiraglio ed ex-soldato di ventura Andrea Doria (1466-1560). Alla vigilia del Sacco di Roma (1527), Genova è nell’orbita francese e Andrea è al soldo del re Francesco I, che mira all’annessione del porto e dell’intero territorio ligure. In questo clima, egli intravvede un futuro diverso e migliore per la sua città e, abbandonando le coste laziali preda dei lanzichenecchi e della peste, offre la propria flotta e la città di Genova alla Spagna, che garantisce alle grandi famiglie locali indipendenza politica, ricchi commerci e attività di credito. Nominato Principe di Melfi da Carlo V, e onorato come un Padre della Patria dai concittadini genovesi, Andrea si fa costruire una splendida reggia (in località Fassolo, allora fuori dalle mura, oggi nei pressi della stazione di Genova Principe), commissionandone l’apparato decorativo prima a Perin del Vaga, poi al Pordenone e al Beccafumi. Si tratta di affreschi esterni (oggi perduti) ed interni, a tema mitologico-allegorico, che, in puro linguaggio manierista, esaltano la magnificenza del committente.
Questo esempio di mecenatismo e di autocelebrazione suscita l’emulazione dell’aristocrazia genovese, innescando una vera e propria competizione per il palazzo, la chiesa o la villa più belli. L’arrivo di due personalità come Galeazzo Alessi e Giovan Battista Castelli detto il Bergamasco, contribuisce all’affermazione dello stile cinquecentesco, di matrice romana, che per quasi cinque secoli influenzerà architettura, pittura e decorazione. La ricchezza di commesse e la presenza di maestri qualificati sono le premesse per la nascita di una generazione di frescanti, sia autoctoni sia di origine lombarda, di alto livello, con una conoscenza diretta delle opere romane di Michelangelo e Raffaello. Essi sono gli interlocutori di una committenza esigente, che vuol vedere nello splendore dei palazzi il riflesso del proprio status sociale e politico. I nomi più noti fanno capo alle botteghe familiari dei Semino, dei Calvi, dei Cambiaso, dei Castello e, in seguito, dei De Ferrari.
Con la crisi economica del primo ‘600 e il crollo demografico seguito alla pestilenza del 1656-57, spiccano personalità più isolate ma di grande valore come Domenico Piola, Lazzaro Tavarone, Gioacchino Assereto, Giovanni Andrea Ansaldo, Giovanni Battista Carlone e Valerio Castello. Associato al calo di commesse (ma non di qualità), nonché alla carenza di personale dovuta, a detta delle fonti, alla pestilenza, è l’arrivo da Bologna degli abilissimi maestri detti “quadratori” o “prospettici”. Questi si occupano, oltreché di incorniciare le partiture figurate, di tutti gli elementi di architettura dipinta a trompe l’oeil caratterizzanti le ricchissime decorazioni interne ed esterne.
Nel convegno del 1982, la divisione di competenze tra “figuristi” e “prospettici” fu interpretata come sintomo di decadenza della decorazione aulica su facciate, stante la presunta perdita di prestigio della decorazione stessa, ormai declassata a pratica artigianale. In realtà, a mio parere, il mutamento dell’immagine pubblica dell’aristocrazia aveva generato una maniera diversa di concepire la decorazione, che in quella fase vide attenuarsi la funzione celebrativa, promuovendo il decoro ad elemento qualificante del piacere estetico e privato dell’abitare. Ne fanno fede i ricchissimi apparati decorativi interni dei numerosi palazzi e ville di questa seconda fase di splendore della pittura genovese.
All’indomani della terribile pestilenza del 1656-57, la Francia manifesta un rinnovato interesse per il porto di Genova, e nel 1684 la città subisce un pesante bombardamento. Agli inizi del secolo XVIII, poi, la contrarietà di Luigi XIV all’alleanza tra Genova e la Spagna porta a un drastico ridimensionamento delle attività creditizie che avevano fino a quel momento rimpinguato le casse cittadine. La maggiore attenzione all’arredamento degli interni e l’evoluzione del gusto che, trascorso ormai oltre un secolo e mezzo dai tempi di Andrea Doria, predilige le facciate decorate a rilievo, determinano una svolta nella decorazione dipinta, che d’ora in poi e fino agli inizi del ‘900 si atterrà ai modi dei quadraturisti. Il nuovo corso predilige l’ornato e lo svincola dalle strutture e dai modelli classico-rinascimentali, in quel clima di libertà e di naturalismo che vede l’eredità manierista evolvere per gradi nel barocco di matrice berniniana e, più tardi, nelle fantasie rococò.
Il biografo settecentesco Carlo Giuseppe Ratti racconta della «[…] capricciosa, e galante maniera, e non mai fino a quei tempi praticata, che introdussero sul finire dello scorso secolo i due valenti Prospettici bolognesi Pittori Agostino Mitelli e Angelo Michele Colonna, ebbe felice incontro, qual meritava: onde si sparse per tutta l’Italia e non meno in Genova […]. Dopo di essi ce la praticarono gli Haffner: poscia alcuni nostri genovesi l’abbracciarono […]» (Delle vite, 1780). L’attività quadraturistica è dunque prevalentemente affidata ai bolognesi (Tassi, Brozzi, Sighezzi, Aldrovandini) e perpetuata fino alla prima metà dell’800, adeguandola via via ai mutamenti stilistici. Nei casi di rifacimento, accorpamento o ampliamento di edifici, i modelli barocchi e rococò permangono accanto a quelli neoclassici.
Ulteriori novità si registrano nel corso del secolo XIX, allorché l’aristocrazia cede il passo alla nuova borghesia mercantile. L’afflato progressista del momento è ben visibile anche in arte. Carlo Barabino è l’architetto che lascia un segno profondo e ancor oggi evidente, quasi tre secoli dopo dopo la rivoluzione urbanistica incarnata nel ‘500 da Alessi e dal Bergamasco. In piena età neoclassica, egli progetta numerosi edifici, tra cui il palazzo dell’Accademia Ligustica e il Teatro Carlo Felice e, successivamente, un piano regolatore (1825) che intende ovviare all’obsolescenza sia della viabilità cittadina, sia delle tipologie abitative concepite sino a quel momento per “ricchissimi” o “poverissimi”. Un’innovazione che riguarda direttamente i prospetti degli edifici consiste nell’obbligo, per ragioni innanzitutto funzionali ed igieniche, di costruire unità separate da ampi spazi aperti, in contrapposizione al disordinato, secolare affastellamento del centro storico.
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L’antica idea di una funzione pubblica e privata della decorazione continua così a prosperare e ad aggiornarsi, mentre fiorisce il dibattito, documentato nelle riviste dell’epoca (in particolare ne Il Giornale dell’Ingegnere, Architetto e Agronomo, uscito negli anni 1850-60), sulla nuova architettura abitativa. Come si legge nell’editoriale del primo numero della rivista, «la scienza dell’ingegnere, mentre appartiene alla sfera delle cose pratiche e positive, non deve scompagnarsi dalla feconda e libera fantasia indispensabile alla coltura dell’ornamentale, onde il pubblico decoro pretende che le cose utili siano anche cose belle». Va detto che, a quel tempo, gli architetti si formano ancora nelle Accademie di Belle Arti, e che proprio alla Ligustica di Genova studia Raffaele Pareto, direttore della rivista e redattore dell’Enciclopedia delle Arti e delle Industrie.
La nuova classe sociale prende a modello le partiture decorative dei vecchi palazzi nobiliari d’impianto michelangiolesco e manierista, che ancora una volta sottolineano e nobilitano la struttura interna in costante dialogo con l’esterno, pur nella versione più adatta alle disponibilità dei proprietari. Anche nelle tipologie più semplici, destinate alla classe operaia (ad esempio a Sestri Ponente, presso i cantieri navali), è sempre presente un basamento bugnato, con ordini di finestre che riprendono la suddivisione in piani nobili e ammezzati, anche se le altezze sono tutte uguali. In questi casi si può affermare che la decorazione dipinta venga adottata quale soluzione più economica, mentre per i più abbienti vi è più ampia possibilità di scelta, e, tra otto e ‘900, si realizzano capolavori decorativi negli stili più nuovi ed aggiornati.
I fratelli Alfredo e Gino Coppedè progettano e decorano a Genova numerosi palazzi: ville-castelli in stile neo-gotico, liberty ed eclettico, rese possibili dai grandi investimenti delle famiglie più facoltose. Le magistrali esecuzioni pittoriche che le abbelliscono testimoniano, ancora una volta, della qualità e della popolarità dei decoratori locali. A sua volta, l’industria propone stucchi prestampati da applicare e, nel caso, nobilitare pittoricamente, ad esempio con la realizzazione di finti marmi. In numerosi progetti, spesso di concezione seriale, si opta per il prospetto principale decorato a rilievo, mentre gli altri lati sono trattati a finto stucco per ottenere il miglior rapporto costi-ricavi, spesso nell’ambito di vere e proprie speculazioni. Interi quartieri residenziali stanno a testimoniare di quel periodo di grande espansione urbanistica che tra la fine dell’800 e la prima guerra mondiale diede alloggio e decoro sociale a genovesi di ogni ceto, nonché agli emigranti che spesso, anziché imbarcarsi sui bastimenti per le Americhe, trovavano lavoro in città.
Indicazioni bibliografiche: AA.VV., Genua Picta. Proposte per la scoperta e il recupero delle facciate dipinte, catalogo della mostra, Genova, Commenda di Prè, aprile-luglio 1982, Genova, Sagep, 1982; AA.VV., ARKOS Speciale Genova: il restauro dei Palazzi dei Rolli, suppl. al n. 7/2004 di ARKOS, Firenze, Nardini, 2004; E. Gavazza-G. Rotondi (a cura di), Genova nell'età barocca, catalogo della mostra, Genova, Palazzo Spinola-Palazzo Reale, maggio-luglio 1992, Bologna, Nuova Alfa, 1992; M. Labò (a cura di), I Palazzi di Genova di Pietro Paolo Rubens e altri scritti d’architettura, Genova, Tolozzi, 1970; L. Muller Profumo, Le pietre parlanti. L'ornamento nell'architettura genovese 1450-1600, Genova, Banca Carige, 1992; G. Rotondi-F. Simonetti (a cura di), Facciate Dipinte. Conservazione e restauro, atti del convegno, Genova 15-17 aprile 1982, Genova, Sagep, 1984. In alto: Sebastiano del Piombo, Ritratto di Andrea Doria (particolare), 1526, olio su tavola, cm. 153 x 107, Roma, Galleria Doria Pamphili. Sotto: Condominio di via Salvago 6, 1916, dettaglio della decorazione plastica e pittorica.