I due brani che seguono sono tratti dal saggio di Jean Clair Critica della modernità, Allemandi, Torino 1984, nella traduzione di Francesca Isidori (edizione originale francese: Paris, Gallimard, 1983). Nell'edizione Allemandi i due passi si trovano alle pagg. 21 e 107-109. I titoli con cui li presentiamo sono invece il frutto di una scelta redazionale. Lo slogan pubblicitario che campeggia sulla fascetta e sulla quarta di copertina di Critica della modernità recita così: “La ristampa del famoso pamphlet di Jean Clair contro l'arte contemporanea”. Ben venga, questo slogan, se serve a far vendere qualche copia in più di un libro importante. Ma è proprio vero che Critica della modernità è un pamphlet contro l'arte contemporanea? A quasi trent'anni dalla sua prima uscita, si direbbe proprio di no. Del pamphlet il testo di Clair non ha né l'occasionalità, né il breve respiro, né la faziosità. Tutti limiti che, a distanza di qualche anno, sarebbero venuti alla luce e lo avrebbero fatto ben presto dimenticare. Al contrario, il coraggio e il rigore con cui è stato scritto colpiscono oggi più di ieri, anche se è ovvio che su questo o quel tema specifico, su questo o quel giudizio, si può dissentire. Critica della modernità non è un libro contro l'arte contemporanea ma, piuttosto, sull'arte contemporanea. Non nasce al di fuori ma dentro di essa, dalla sua stessa decadenza e impotenza. Il Museo di pittura immaginato da Clair è un appello, composto ed ironico, a favore del bello in arte. Dove si scopre che il bello in arte è una cosa semplice e decorosa, dunque anche un po' decorata. Appena un po': “qualche colonna forse”, scrive Clair. Quel tanto che basta perché si capisca che un museo è un museo, ad esempio. Perché forma e funzione non possono mai veramente coincidere (come una certa mitologia del Design vorrebbe lasciar credere) ma, invece, possono benissimo convivere. L'impulso spontaneista, espressionista, individualista al quale tanta creatività continua a soggiacere è, secondo Clair, una forza ormai puramente inerziale, il residuo di un'esplosione avvenuta in un tempo lontano, concluso. L'energia generata da quell'esplosione si è ormai esaurita. Il patrimonio della tradizione e del mestiere - quel patrimonio cui anche i detrattori più accaniti hanno attinto legittimità - si è quanto mai assottigliato. In arte non vi sono più crediti da esigere ma, semmai, debiti da onorare.
Ecco quale potrebbe essere, alle soglie del terzo millennio, un progetto rivoluzionario.
Si potrebbe costruire un edificio, di aspetto semplice e un po’ solenne. Una costruzione in pietra, con muri porte e finestre, e qualche colonna forse, per sottolineare discretamente la dignità della sua funzione. Le sale sarebbero armoniose, né troppo grandi, né troppo piccole. La luce verrebbe dal nord, uniforme e fredda. Sui muri, ad un’altezza conveniente, verrebbero appesi dei quadri, escludendo qualsiasi altro oggetto che si pretenda artistico. In compenso non si applicherebbe alcun criterio basato sulla novità: ritratti del Fayyum accanto ai quadri di Giacometti, i pastelli di Szafran e Liotard, alcune vedute del Canaletto e i paesaggi di Lopez-Garcia, un nudo di Lucian Freud accanto a un Géricault, un Arikha vicino a un Menzel, e uno gnomo di Raymond Mason vicino a un Gaudenzio Ferrari.
Si parlerà a voce bassa. Non sarà permesso toccare le opere, né fumare e mangiare davanti ad esse, ma in compenso si potranno guardare a sazietà e nelle migliori condizioni possibili. Per finire si potrebbe mettere un cartello all’ingresso di questo edificio di tipo nuovo: «Museo di pittura».
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Esaminiamo la situazione particolare in cui si trova oggi l’artista che intende praticare la propria arte.
Certamente, all’inizio del secolo, un pittore moderno poteva prefiggersi come scopo di distruggere il saper-fare che gli era stato inculcato ed esaltare la sua sola intenzione creatrice. Ma il fatto è che il saper-fare esisteva, c’era cioè qualcosa da distruggere. Verso la fine della sua vita, Matisse sembra scoprire fino a che punto lo strumento che era stato suo per più di mezzo secolo fosse portatore di “novità”, ma non bisogna dimenticare che cinquant’anni prima, accanto a lui, c’era ancora qualcuno per facilitargli l’accesso alle ricchezze del mestiere, che in seguito avrebbe potuto rinnegare a suo piacimento. L’insegnamento di Gustave Moreau gli aveva trasmesso, per quanto già diminuita, l’eredità della grande pittura. Più tardi, il copiare i grandi maestri del passato l’aveva confortato nella validità di quel sapere. Date queste premesse era abbastanza facile, come un figlio che dilapida i beni di famiglia, intraprendere quella semplificazione estrema dello stile che, ahimè, sarebbe stata accompagnata da un impoverimento di mezzi senza precedenti.
Cosicché la celebre apostrofe del maestro al suo allievo, contrariamente a quanto si continua a scrivere e a credere, non doveva essere un incoraggiamento, ma una messa in guardia. Non già “Voi semplificherete la pittura”, ma “Non semplificherete mica la pittura fino a questo punto, fino a ridurla così. La pittura non esisterebbe più”, che segna la rottura tra maestro e allievo. Ma ancora una volta, nella misura in cui aveva un’eredità da liquidare, Matisse poté in effetti vivere per tutta la vita sulla “rendita” di un mestiere che peraltro praticava in modo ammirevole. Ma una volta esaurita la provvista di fiducia che l’artista aveva messo nella propria arte, quanti altri, da vent’anni a questa parte, hanno praticato la pittura come si vive a credito?
Si pensi a quest’esempio, uno fra i tanti: Quando Vermeer o Bellotto si servivano di una camera oscura per situare il loro soggetto, non c’era rottura fra la novità tecnica da essi introdotta e i metodi tradizionali che da sempre erano stati i loro. Una continuità naturale si stabiliva dall’una agli altri, in cui la mano, il mestiere, le vernici riprendevano con abilità i dati della lente. Ma se oggi un pittore foto-realista si serve di una diapositiva, di un proiettore a più focali, di una pistola a spruzzo e di colori acrilici, spray e liquitex, interviene una rottura assoluta fra l’estrema sofisticazione dell’insieme degli strumenti che usa e la stupefacente povertà di un mestiere, ridotto, da vent’anni di «semplificazioni», a non essere più nulla. […]
Isolato, smarrito, primo testimone e prima vittima della rottura di una tradizione, autodidatta costretto a riapprendere un mestiere in assenza di qualsiasi insegnamento e di qualsiasi maestro, l’artista, alla fine del nostro secolo, è riuscito, malgrado se stesso, a realizzare il sogno che i suoi predecessori avevano soltanto accarezzato: essere il primitivo che viene esibito nei salotti e la cui ingenuità diverte, inquieta o distrae. Aristocratico ormai diventato illegittimo, egli vive oggi alle spalle del suo titolo, senza dargli più nessun lustro.
In alto: Jean Clair (www.youtube.com); Sotto: l'edizione originale di "Critica della modernità", Gallimard, Paris 1983.