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Superstizioni

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A cosa servono le superstizioni? Un illuminista settecentesco risponderebbe più o meno in questo modo: «A far percepire fatti storicamente e scientificamente spiegabili come realtà sovrannaturali, da accettarsi così come appaiono». Tipico esempio di superstizione d’oggi, dove il folklore delle leggende metropolitane soppianta l’antico folklore agrario dei lupi mannari e dei fantasmi, è quel sentimento pseudolibertario e di facciata, secondo il quale tutto è arte, tutti possono essere artisti, l’arte è gioco. In realtà, questa convinzione-convenzione è doppiamente superstiziosa, perché, a differenza delle superstizioni di un tempo, non si manifesta con un’intimidazione («nelle notti di luna piena c’è il lupo mannaro», «in quella casa ci sono i fantasmi») ma, al contrario, con un gesto di liberalità. Ma dietro una così magnanima concessione si nasconde una fitta rete di sbarramenti.

Giocare, appunto: l’arte è un gioco e come tale tutti possono farla. Può non essere bella da guardare ma è divertente e terapeutica per chi la fa. Appartiene alla sfera del tempo libero e non a quella del lavoro. Anzi, si oppone al lavoro. Tant’è che, sempre stando alla superstizione corrente, una manualità raffinata e sapiente sarebbe da ritenere nulla più che un optional per quelle che sono le necessità dell’artista d’oggi. Da parte loro, i pochi veri vincitori del gioco non fanno mistero del fatto che, appunto, è tutto un gioco. La frase più “ganza” e gettonata nel superstiziosissimo mondo dell’arte di questi ultimi vent’anni è: «Sempre meglio fare l’artista che andare a lavorare». Per una volta, non crediate che chi lo dice vi stia prendendo in giro. Semplicemente, dice quel che pensa.

In alto: Anonimo, Pannello parietale con rose su un graticcio di canne (particolare), 1882, intarsio lapideo, Firenze, Museo dell'Opificio delle Pietre dure.
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