Per costruire un grattacielo non vi sono alternative all’acciaio, di cui il vetro sarà il logico complemento. Analogamente, per realizzare un muro di contenimento non esistono alternative al cemento armato. E ancora, per costruire un’elegante villetta è difficile trovare un sostituto del mattone. Dal punto di vista strutturale non vi sono più dubbi: due secoli di sperimentazione sulle nuove funzioni della città borghese e sui nuovi materiali resi disponibili dalla rivoluzione industriale, hanno consolidato prassi costruttive certe e credibili.
Molto meno rassicurante è la terminologia ancor oggi utilizzata per designare alcuni concetti fondamentali. In particolare, balza all’occhio per la sua inadeguatezza il vocabolo funzione, alla cui genericità la cultura architettonica novecentesca ha tentato di ovviare ricorrendo ad espressioni tratte dal lessico sociologico e semiotico, col risultato di aumentare ulteriormente la confusione anziché portare chiarezza. Ora, funzione è termine che dice tutto e nulla in rapporto all’oggetto cui si applica, al di là dell’ovvia constatazione che una lama taglia, un manico si impugna, e così via dicendo. Ne proponiamo pertanto in questa sede tre diverse aggettivazioni, che, alla bisogna, rendano conto dei tre diversi campi di applicazione su cui la parola ricade. E cioè: 1) funzione originaria: ad esempio il tagliare – la carne, la stoffa, eccetera; 2) funzione propria: sia il coltello che le forbici tagliano, ma con una diversa funzione loro specifica; 3) funzione civile: ovvero la funzione connessa all’idea di decoro; quella che fa sì, ad esempio, che apparecchiando la tavola per una cena importante, si ricorra al set di coltelli dall’immanicatura in legno o in metallo inciso, al posto di quelli, altrettanto efficienti ma più dimessi, immanicati in plastica 〈1〉.
Ebbene, in architettura la funzione originaria (magazzini, stazioni, centri direzionali, eccetera) è stata declinata in tante funzioni proprie (Empire State Building, Tour Eiffel, Casa sulla Cascata, eccetera) che, sedimentandosi, hanno definito i canoni costruttivi del moderno. Peccato, però, che quanto alla funzione civile la questione sia rimasta irrisolta. La puerile idea iniziale, secondo la quale se un edificio è “funzionale” nell’uso ed “economico” nella costruzione, allora è anche “bello”, è diventata, nel tempo, l’alibi culturale destinato a coprire l’incapacità ideativa dei progettisti. L’ottusa etica moderna e contemporanea, imperniata su una visione operaista della società, nel momento stesso in cui ha concepito la città come luogo in cui masse di individui lavorano fianco a fianco, dormono negli stessi quartieri e si spostano sulle stesse strade negli stessi orari (si veda il delirio urbanistico di Oscar Niemeyer a Brasilia o la follia totalitaria di chi, sulla scia di Le Corbusier, progettava “moduli abitativi” anziché case) ha sì risolto il problema della richiesta di alloggi, creando però, al tempo stesso, un simmetrico problema civile.
Oggi giudichiamo squallide e degradate le periferie urbane costruite in base alle logiche moderniste (le banlieues parigine ad esempio), non perché siano necessariamente rifugio di malavitosi, ma perché, chiunque vi abiti, non potrà che farsi un’idea negativa del vivere civile e comportarsi di conseguenza. L’ipocrisia dell’architettura contemporanea, che cerca di coprire con pezze sociologiche le proprie falle estetiche, si coglie con un semplice esempio: se la verità che viene proclamata da oltre un secolo fosse autentica, i turisti che visitano Roma si recherebbero con i torpedoni a visitare il razionale Nuovo Corviale, capolavoro di Mario Fiorentino, snobbando l’obsoleto centro storico barocco firmato da Bernini e Borromini. Al contrario, Piazza Navona è costantemente affollata di turisti, mentre quel quartiere dell’estrema periferia è additato come un fallimento.
Il Moderno non è riuscito a sciogliere il nodo etico connesso alla funzione civile dei suoi manufatti, e il tentativo di reciderlo di netto usando la spada della funzionalità, come Alessandro Magno fece col proverbiale nodo di Gordio, ha prodotto disastri.
Il problema si manifesta in tutta la sua drammatica evidenza quando l’architettura d’oggi si occupa di manufatti che storicamente rientrano nelle sue naturali competenze, ma che non hanno caratteri funzionali traducibili in termini utilitaristici, come possono invece averli un magazzino o una stazione ferroviaria. Piazze, fontane, manufatti celebrativi in genere, sono opere di importanza statutaria rispetto alla funzione civile, ma con una funzione originaria e propria spesso inconsistente. La piazza ad esempio, tema caro all’architettura antica, rappresenta l’apice della funzione civile perché spesso costituisce il simbolo della città, ma per quel che riguarda le altre funzioni, è e rimane solo uno “slargo” dove incontrarsi e ospitare settimanalmente il mercato.
Contrariamente a quanto avviene trattandosi di un edificio, nel manufatto celebrativo le leggi dell’etica prevalgono di gran lunga su quelle della statica. Ne consegue che, se acciaio e vetro sono imprescindibili per costruire un grattacielo (e l’estetica che ne deriva verrà giocoforza ritenuta “bella”), non per questo si è autorizzati a rovesciare il processo logico, cioè a considerare acciaio e vetro belli in sé, sottomettendoli a necessità costruttive difformi da quelle che valgono per un grattacelo.
Far assurgere ad archetipo l’estetica derivante da una necessità costruttiva, per farne poi ricadere le conseguenze anche su altri manufatti, equivale spesso a generare veri e propri mostri. L’acciaio è economico ed utile per erigere grandi edifici, ma è costoso ed inutile per costruire piccoli manufatti con finalità commemorative e/o di puro decoro.
Qui sorge un secondo problema: l’acciaio, qui inteso in senso lato come profilato o laminato metallico, celebra sempre e solo se stesso comunque lo si lavori, diversamente dalla pietra per esempio, che può assumere tutte le forme ritenute consone al tema.
Vi è poi un terzo, ulteriore problema: l’azione del tempo sulle superfici genera la tipica patina che, sui materiali naturali, si presenta sotto forma di muschi ed erosioni, mentre su quelli artificiali si dà per scoloriture ed ossidazioni. Ai manufatti di origine artificiale la patina conferisce (senza che ciò pregiudichi l’aspetto strutturale) un’idea di “vecchio”, mentre a quelli di origine naturale conferisce quella, ben più dignitosa, di “antico”. Esteticamente parlando, il materiale naturale regge l’invecchiamento, mentre la stessa cosa non si può dire di quello artificiale, che assume subito l’aspetto logoro, consunto, da fermata del tram di periferia.
Decoro e celebrazione si danno attraverso i dati formali e non attraverso quelli strutturali: questo è il vero discrimine. L’imponenza di un portale d’accesso o il prestigio di una piazza si esprimono conferendo loro forme congrue (si pensi alla vicenda storica della piazza romana di San Pietro) e non ingombrandole di manufatti celebranti solo l’arbitrio del carpentiere.
Un caso emblematico è rappresentato dalle grandi strutture metalliche, pensate da Renzo Piano, che occupano il porto vecchio di Genova. Esse, nonostante le migliori intenzioni, alla fin fine servono solo da giostra per i turisti di passaggio e nulla restituiscono dell’idea originaria, consistente nel celebrare l’importanza di Cristoforo Colombo e la grandezza della città. Ancora una volta, il confronto con un arco di trionfo romano – opera prettamente celebrativa – è di per sé eloquente. La sindrome “metalmeccanica” dell’architettura moderna, sindrome poi giunta in eredità per via genetica a quella contemporanea, porta invariabilmente a risolvere i temi celebrativi con strutture e materiali “moderni” che, quando non producono giostre, conferiscono alle nostre piazze l’aspetto di ferriere dismesse.
Comune a questi manufatti è l’idea di ingombro, di intralcio, di occupazione di suolo libero, di costrizione dei percorsi e di coercizione nelle dinamiche aggregative dei cittadini, come è tipico della panchina costituita da una gettata monolitica di cemento armato. La piazza veneziana di San Marco è bella perché è sgombra: il decoro è dato da un disegno di pavimentazione e l’architettura interviene sugli edifici che fanno da quinta prospettica. Spazio aperto e quinte prospettiche ricorrono anche nelle maggiori piazze di Roma, con l’aggiunta di qualche punto focale – fontane od obelischi – che poco o nulla tolgono allo spazio fruibile, ma aggiungono molto in termini prospettici.
Anche su questo versante l’ “idea del bello”, intesa come coesione proporzionale delle parti, euritmia compositiva, invenzione attuata su un repertorio topico condiviso dalla comunità, è stata soppiantata dal un gusto dello “strano” con cui si cerca di esorcizzare l’annichilente monotonia di un minimalismo obsoleto, figlio anoressico di un razionalismo defunto da decenni.
È chiaro a tutti, ormai, che la cristallina unità del Moderno si è infranta, ma non per questo si è autorizzati ad assumere il coccio di vetro come modello estetico per grattacieli o capannoni industriali, com’è avvenuto per esempio a Verona, nel nuovo centro direzionale costruito nell’area dell’ex Foro Boario.
È giunto il momento di dire basta all’arbitrio inventivo del singolo progettista presentato alla comunità come dogma culturale, all’afasia estetica spacciata per insondabile spirito del tempo, allo sperpero di risorse pubbliche destinate a manufatti che si rivelano fallimentari anche sul piano economico e funzionale, come da qualche anno si può osservare a Rovigo nella rinnovata, centralissima piazza Matteotti.
È giunto il momento di far ritornare l’architettura a casa, cioè nel novero delle Belle Arti da cui aveva divorziato qualche decennio fa, togliendole di dosso il fango di scienza sociale raccolto nella palude della contemporaneità.
〈1〉 Con riferimento alla funzione civile vedi, su questa stessa rivista (n. 5, sett/ott 2012), l'articolo di M. Lazzarato, L'ornamento nell'epoca del consumismo.
In alto: veduta zenitale del cortile interno della Casa del Mantegna a Mantova (post 1476). Sotto: Navarrini Architetti e associati, sistemazione urbanistica di Piazza Matteotti, 2006-2010, Rovigo.