In un numero come questo, dedicato a luoghi e modi del decoro nella città, non guasta una riflessione sulla Street Art, o Graffiti Art che dir si voglia. Ormai da qualche decennio ci si rivolge ad essa come alla bacchetta magica per risolvere i problemi del decoro urbano, laddove questo latita o, più semplicemente, è cosa ignota a chi progetta e costruisce. Un tale indice di gradimento poggia su alcuni requisiti comuni anche alla musica pop-rock: il protagonismo giovanile, l’approccio tecnico semplificante e ugualitario, il rapporto col panorama delle culture cosiddette “alternative”. Ma tutto ciò ha un prezzo: di fatto, quella della Street Art è un’estetica pesantemente globalizzata, che, al di là degli stili, dei marchi e dei brand, sconta vezzi e vizi cronici. Tendenza all’horror vacui, gigantismo, colorismo “urlato”, abuso di codici e sottocodici, sono altrettante palle al piede per un’arte che voglia davvero colloquiare con la città e i suoi abitanti, andando oltre gli stereotipi.
Anche per questo è utile guardarsi intorno e cercare, nel groviglio di segni che ricoprono la pelle della città contemporanea, se per caso non vi sia qualche scintilla di diversità, qualche seme radicato in un terreno più fecondo. Non vi è centro piccolo o grande che non ne nasconda qualcuno. Reggio Emilia, Piazzale Europa, muro di cinta delle ex Officine Reggiane, dove oggi sorge il nuovo Tecnopolo: i recenti murales di Pietro Anceschi raccontano quel che accadeva un tempo in quei capannoni, il loro stretto rapporto con la città. Lo fanno senza fretta, con momenti di vera poesia, lasciando alle immagini il tempo di depositarsi e fluttuare nel ricordo. Parafrasando Mario Lodi si potrebbe dire: “C’è speranza se questo accade a Reggio Emilia”.
In alto: Pietro Anceschi, Decorazione murale (particolare), 2013, cm. 220 x 250 circa, Reggio Emilia, Piazzale Europa.