Nel suo attacco ad una millenaria tradizione di rapporti fra arte e artigianato e, implicitamente, ad ogni possibilità di dialogo tra arte e industria, Ornamento e delitto cavalca l’onda montante dell’industrialismo. Ma quell’onda non l’ha certo suscitata (essa viene da lontano: dall’Inghilterra del ‘700, dalle colonie produttrici di materie prime pregiate), né tantomeno può illudersi di controllarne gli effetti. E fa semplicemente sorridere l’idea di Loos secondo la quale la rinuncia all’ornamento darebbe luogo a un surplus di reddito che finirebbe nelle tasche del lavoratore. Non occorre essere degli economisti per sapere che l’ottica capitalistica punta in quanto tale alla massimizzazione del profitto, e che qualunque revisione dei processi produttivi si compie proprio in quell’ottica, senza lasciare margini che non siano strettamente funzionali all’obbiettivo da raggiungere.
La criminalizzazione dell’ornamento teorizzata da Loos è un campionario di luoghi comuni semplicistici e riduttivi. Nel momento stesso in cui non riconosce alla cultura della decorazione la dignità e complessità storica che le competono, Loos le nega anche qualunque capacità di evolversi, di rispondere alle esigenze del vivere civile nei vari stadi del suo sviluppo. Tra l’altro, a volerlo seguire nel suo delirio, qualunque espressione della cultura umana potrebbe essere giudicata barbarica e decadente al pari dell’ornamento. Si pensi alla religione, dove i riti della morte e del sacrificio (vedi il sacramento della comunione) non sono che la metafora civilizzata di uccisioni reali, vuoi di animali (bovini, ovini) vuoi di uomini (esecuzioni rituali di giovani membri del clan o di nemici catturati, antropofagia). O allo sport, che altro non sarebbe se non la sublimazione della guerra, dello scontro cruento (come ancor oggi si intravede nel pugilato e nella tauromachia), trasposti in una tenzone che prevede la sottomissione del vinto al vincitore tramite il confronto, agonisticamente disciplinato, tra singoli o squadre.
Ma ciò che più colpisce nella requisitoria di Loos, facendone una sinistra premonizione, è la supponenza con cui egli si proclama uomo del 1908, relegando gli altri nel 1880 o nel medioevo, distribuendo patenti di ritardatario e di parassita. Il Papua vive nell’età della pietra; il contadino di Kals (Kals am Glossglockner, nel Tirolo orientale) vive nel medioevo; entrambi sono dei pagani; entrambi sono un intralcio per il progresso. Chi non marcia nella stessa direzione e alla stessa velocità pianificate dall’avanguardia politico-economico-culturale è in colpa. «Beato il paese che non ha di questi ritardatari, di questi predoni. Beata l’America!», scrive Loos, memore di aver soggiornato negli USA in gioventù. Ma dimentica che anche l’America ha avuto i suoi ritardatari, i suoi predoni, e ne ha fatto strage e ha rinchiuso i superstiti nei suoi territori più inospitali, le cosiddette “riserve indiane”.
Una frase in particolare colpisce, perché dà la misura del fanatismo inquisitorio con cui Loos addita i presunti nemici: «Persino nelle città vi sono tra noi degli uomini non moderni, dei ritardatari del diciottesimo secolo, che inorridiscono davanti a un quadro dalle ombre violacee solo perché loro il colore viola non lo vedono ancora». Dove le “ombre violacee” sono una tipica prerogativa della pittura impressionista, uno tra gli elementi espressivi più emblematici di quel movimento che aveva cambiato faccia all’arte europea di fine ‘800, costringendo il pubblico a leggere la realtà con occhi diversi. Dunque per Loos non vi è differenza fra un progresso e l’altro, fra il treno che sfreccia nelle praterie del Far West e l’ombra pittorica che da grigio-bruna si fa azzurro-viola. Chi perde il treno, qualunque treno, è in ritardo: questa è la colpa. Sembra di essere in un racconto di Kafka.
Il ragionamento di Loos si ammanta tuttavia di un rassicurante velo di scientificità positivista, che pesca in un patrimonio di idee estremamente accreditate nella cultura europea di fine secolo XIX. Tra di esse spicca la convinzione, mutuata dall’antropologia criminale dell’italiano Cesare Lombroso (L’uomo delinquente, 1876 e 1897) che i dati anatomici e fisionomici rilevati su un soggetto possano evidenziarne la vocazione, se non addirittura la predestinazione, a delinquere. E che anche certi aspetti culturali e comportamentali (tra cui il tatuaggio) siano dei sintomi di devianza sociale. Si aggiungano le suggestioni del superomismo di Nietzsche, della biogenetica di Haeckel, del darwinismo sociale di Spencer, le prime ricerche nel campo dell’eugenetica e della selezione razziale e si avrà un micidiale cocktail ideologico. Quello che, di lì a poco, porterà a teorizzare il diritto/dovere di provvedere affinché criminalità, alcoolismo, delitti di opinione, deficienze psicofisiche, vengano debellati così come si debella una malattia ereditaria: isolandone i portatori. E se necessario eliminandoli.
All’epoca in cui Loos scrive Ornamento e delitto (1908), la più avveduta cultura europea sta faticosamente cercando di andare oltre le tesi della criminologia di Lombroso, del darwinismo sociale, dell’eugenetica. La più avveduta, appunto. Perché nel ‘900 la strada dello scientismo determinista e positivista è ancora lunga e lastricata di errori. E di orrori. Stanno infatti maturando le teorie razziste incentrate sulla superiorità europea ed ariana e sulla necessità che i forti opprimano, e sopprimano, i deboli. Dopo aver fatto da supporto al colonialismo ottocentesco, questo corpus di dottrine si appresta adesso a diventare l’alibi scientifico dei regimi totalitari, ovunque vi sia bisogno di evocare il nemico, il traditore, il parassita da eliminare senza pietà.
Ebbene, se è vero che le parole sono pur sempre e solo parole, e indirizzate contro un bersaglio non umano ma culturale, fa comunque un certo effetto leggere le frasi con cui Loos invoca una sorta di “soluzione finale” contro l’ornamento, indicando in esso la fonte di ogni male, quasi un peccato originale da lavare compiendo un sacrificio esemplare. Soprattutto, criminalizzando e ghettizzando l’ornamento Loos mette concretamente mano ad un’idea di “Arte degenerata”. Idea già formulata a suo tempo dallo scrittore ungherese Max Nordau (Degenerazione, 1892), ma al momento ancora priva di applicazioni pratiche. Così facendo, Loos anticipa di venticinque-trent’anni, anche nella violenza verbale, quello che sarà un caposaldo della propaganda culturale di Hitler e Goebbels nella Germania nazista. È già, il suo, il tipico caso di una avanguardia che “uccide se stessa”, invocando per prima i metodi brutali e repressivi di cui, più tardi, diverrà a sua volta la vittima.
In alto: tatuaggi di criminali, da C. Lombroso, "L'uomo delinquente", Torino, 1897. Sotto: la sede della mostra "Arte degenerata" a Berlino, in una cartolina del 1938.