Questo libro non tratta d’arte ma di sociologia del diritto, eppure il titolo accende la nostra curiosità. L’autrice, ordinaria alla Facoltà di Diritto dell’Università di Perugia, vi analizza una serie di provvedimenti presi in Italia negli ultimi anni, sia in sede governativa che di amministrazioni locali; provvedimenti che fanno leva sul concetto di “decoro” quale strumento per inasprire il controllo sociale e, in particolare, le sanzioni contro gli strati più deboli della popolazione (migranti, nomadi, disoccupati, precari). Secondo Pitch l’idea di decoro funziona, nelle mani della classe politica, come uno strumento di controllo in più – una telecamera in più, una rete metallica in più – per tenere lontani gli indesiderati, evitando così di affrontare i problemi che essi pongono alla compagine sociale nel suo insieme. E fin qui nulla da obiettare, se è vero che non vi è cosa, dal gioco del calcio alla religione alle grandi fobie collettive, di cui non si possa fare un uso strumentale e interessato.
La perplessità si fa strada quando Pitch spiega cosa si debba concretamente intendere per “decoro”. Recita la quarta di copertina: «Decoro è termine che viene utilizzato per significare cose diverse. Un comportamento è “decoroso” quando è adeguato al tipo di persona e al contesto in cui esso si dispiega: una casa è “decorosa” quando è pulita e in ordine. Ma i ricchi e i potenti non hanno bisogno di imporsi regole di decoro. Anzi, il loro valore si manifesta in uno stile di vita che esibisce l’assoluta noncuranza verso i limiti imposti a tutti gli altri. Dove l’ “indecenza” è ciò che conviene ai molto ricchi, il decoro è ciò che viene proposto e imposto a un ceto medio impoverito e impaurito. Il decoro divide tra perbene e permale e funziona per ottenere consenso. Decoro, merito, disciplina sono le parole d’ordine e gli obiettivi di politiche che legittimano la paura contro ciò che è sporco, contaminante, eccessivo, minaccioso per l’ordine e la sicurezza».
Ma siamo sicuri che “decoro” sia proprio ciò che Pitch sbrigativamente ci racconta? O non è piuttosto, quello descritto dall’autrice, uno pseudodecoro di facciata, luogo comune retorico caro a quegli intellettuali che hanno nella vituperata “ipocrisia borghese” il loro bersaglio preferito, il simulacro contro cui scagliarsi con ineffabile ritualità? Già, perché in questa versione semplicistica e di comodo, l’idea di decoro ha sempre messo d’accordo – nel senso che né gli uni né gli altri possono farne a meno – sia i liberisti che se ne servono come di uno scudo, sia i libertari che dicono di detestarla in quanto strumento di oppressione e di potere.
Sintomatica è l’invettiva di Pitch contro i “ricchi” e i “potenti”, a suo dire noncuranti del decoro: dove si lascia intendere che chi non è ricco e potente dovrebbe a maggior ragione infischiarsene di ogni forma di decoro. In realtà, in un paese sano, in cui la vita civile è realmente partecipata a dispetto delle differenze economiche, culturali e sociali, l’indifferenza al decoro non è affatto tipica dei ricchi e dei potenti, almeno non più di quanto lo sia dei poveri e degli “ultimi”. Il disinteresse per il decoro da parte delle élites politico-economico-culturali è invece un tratto caratteristico delle società in decadenza: quelle cioè in cui le classi dirigenti hanno ormai abdicato al proprio ruolo, rinunciando a proporre idee e modelli di vita accessibili a tutti, anche ai meno abbienti. Esortare un paese – e tanto più le sue giovani generazioni – ad imitare le élites nei loro errori, nelle loro fughe davanti alle responsabilità, significa auspicarne non la ripresa ma, al contrario, la crisi irreversibile.
Il libro: Tamar Pitch, Contro il decoro. L’uso politico della pubblica decenza, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 90, euro 14.
In alto: La testata di Zinedine Zidane a Marco Materazzi, durante la finale dei Mondiali di calcio 2006. Sotto: la copertina del libro.