Critica d’arte non è sempre e solo quella scritta dagli specialisti, e con destinatari già ben individuati in partenza. Tanto più per l’antichità e il medioevo, quando la letteratura in materia era quasi esclusivamente di tipo trattatistico e tecnico, sono molti gli scritti di non addetti ai lavori che contengono indicazioni rivelatrici. La cosa acquista un rilievo ulteriore se, anziché di pittura, scultura o architettura, si parla di quell’oggetto misterioso che è la decorazione. Un oggetto che può realizzarsi in contesti grafico-pittorici, scultorei o architettonici, e che non si identifica in un materiale o un in un procedimento ma in un repertorio formale, l’ornatistica, e nei rapporti compositivi e funzionali di cui tale repertorio viene di volta in volta investito.
I due brevi capitoli della Topographia Hibernica di Gerald of Wales pubblicati in queste pagine 〈1〉, sono un ottimo esempio di come la descrizione da parte di un osservatore coevo, non necessariamente esperto ma intelligente e curioso, di un’opera d’arte del passato, possa essere preziosa oggi. Essa ci aiuta ad andare a ritroso fino a toccare quegli strati della sensibilità che il trascorrere del tempo ha ricoperto di incrostazioni e di oblio. In casi come questi, la conoscenza della lingua originale in cui l’autore si esprimeva è essenziale per portare alla luce aspetti peculiari della sua cultura e sensibilità. Ma lo sforzo è ripagato dai risultati.
Gerald of Wales visita l’Irlanda sul finire del secolo XII, e nel raccontare ciò che ha visto e conosciuto compie un’operazione già molto antica ai suoi tempi, un’operazione che fa tornare alla mente testi classici come la Periegesi (160-177 d.C.) del greco Pausania. L’esperienza che egli vive nel monastero di Kildare, potendo sfogliare un prezioso codice miniato e annotare ciò che la tradizione locale afferma intorno alla sua genesi, ricorda molto da vicino certe pagine de Il nome della rosa di Umberto Eco, quando i protagonisti del romanzo consultano avidamente i tesori cartacei della biblioteca del convento benedettino di cui sono ospiti. Che l’evangeliario visto da Gerald sia il Libro di Kells oggi al Trinity College di Dublino o un altro codice andato perduto (queste sono le due ipotesi alternative) poco importa, di fronte all’intensa emozione che le sue parole ci trasmettono 〈2〉.
Dopo aver elencato alcune delle iconografie più significative raffigurate nel libro, Gerald dà al lettore un prezioso consiglio su come ammirare simili capolavori nel dettaglio, esortandolo a non cedere a quella routine, a quello sguardo distratto che, evidentemente, non è solo una debolezza del pubblico odierno, ormai assuefatto a consumare una quantità di immagini impensabile solo alcuni decenni fa. E qui l’originale latino recita: Quas si superficialiter et usuali more minus acute conspexeris, litura potius videbitur quam ligatura; nec ullam prorsus attendes subtilitatem, ubi nihil tamen praeter subtilitatem. Che abbiamo tradotto così: “Se le guarderai [le miniature del libro] in modo superficiale, con la sufficienza abituale, ti faranno l’effetto di uno scarabocchio più che di un intreccio; né noterai sottigliezza alcuna, laddove invece tutto è sottigliezza”.
Ora, la contrapposizione tra ciò che si vede guardando distrattamente e ciò che si vede aguzzando la vista è resa in latino con un gioco di parole che non può essere casuale, tale è l’assonanza tra i due termini: da una parte litura (“cancellatura”), dall’altra ligatura (“legatura, legame”). Non essendo possibile trovare un’assonanza tra due corrispondenti termini italiani, abbiamo cercato almeno di preservare la contrapposizione semantica tra i due concetti, ed è per questo che al posto di “cancellatura” abbiamo preferito “scarabocchio” (del resto “cancellare” significa alla lettera tirare una o più linee, come le sbarre di un cancello, sulla scrittura inesatta) e al posto di “legatura”, “intreccio”.
Insomma, è evidente che Gerald of Wales vuole contrapporre il senso di ordine e di razionalità che è proprio della ligatura alla casualità che è propria della litura, o, per dirla con una terminologia tipica dell’arte moderna e contemporanea, la “forma” che è requisito della ligatura all’ ”informe” che è limite costitutivo della litura. Ciò facendo, egli ci dà una bellissima lezione di ciò che gli uomini del suo tempo reputavano decoroso: l’ordine e la forma appunto, e ove possibile non un ordine ed una forma banali, subito intellegibili, ma talmente ragionati e complessi da apparire, ad un occhio distratto o inesperto, il loro contrario, cioè il caos, l’improvvisazione abborracciata.
È partendo da qui, da quell’ordine (mascherato da disordine) che Gerald apprezza come la più alta dimostrazione di talento artistico, che ci si può interrogare sui fatti prodigiosi e miracolistici che egli allega alle proprie annotazioni sul libro di Kildare. Gerald è un alto prelato, di raffinata cultura, e le tradizioni leggendarie di cui egli riferisce in tutto il libro non sempre lo convincono, è chiaro. Egli le riferisce in primo luogo per dovere di completezza, perché sa che le congetture circa i fenomeni naturali ed umani che incontra lungo il suo viaggio sono parte integrante della loro storia e, soprattutto, della loro ricezione da parte della popolazione illetterata e poverissima delle campagne d’Irlanda. E quando, all’inizio del brano citato, scrive che inter universa kildaria miracula, nihil mihi miraculosius occurrit qual liber ille mirandus, tempore virginis, ut aiunt, angelo dictante conscriptus (dove, in traduzione letterale, il libro diventa “il più miracoloso di tutti i miracoli di Kildare”) è chiaro che, pur da uomo di chiesa, non si fa mancare un pizzico di ironia.
Ma il valore, sia dottrinale che estetico-critico, della vicenda dell’angelo che, apparendogli in sogno, mostra all’amanuense come fare a realizzare il libro, non è assolutamente inficiato da qualche larvata riserva sulla storicità dell’evento. Se l’uomo è simile a Dio quando crea cose belle profondendovi tutta la propria intelligenza, allora – sembra sottintendere Gerald – il libro di Kildare contiene senza dubbio qualcosa di miracoloso e di divino, qualcosa che bisogna appunto voler vedere nella spire dei suoi decori, perché uno sguardo distratto, non sufficientemente attento e motivato, difficilmente riuscirà a discernervi qualcosa che vada oltre l’estro e la bizzarria, per attingere alla perfezione geometrica della creazione.
Naturalmente ciò che a noi oggi interessa è, in primo luogo, l’esatta cronologia. L’ipotesi, riferita da Gerald, del miracolo operatosi con l’intercessione di un personaggio storico come Santa Brigida (451-525), farebbe infatti retrodatare la stesura del codice al 500 circa, mentre sappiamo che l’apogeo della cultura irlandese dei manoscritti miniati si colloca nel secolo VIII, l’epoca alla quale si ascrivono i codici di Lindisfarne (720 circa) e di Kells (800 circa). Dunque è probabile che il libro visto da Gerald of Wales a Kildare intorno al 1180 avesse quattro-cinquecento anni e non settecento. Ma quel che è certo è che la sua stessa antichità, unita all’ipnotica fascinazione delle figure miniate sfogliate infinite volte davanti ai fedeli, ne faceva qualcosa di autenticamente “magico”, un vero ricettacolo di sapienza e bellezza, miracoloso come una reliquia.
〈1〉 Vedi, su questa stessa rivista, Gerald of Wales, Il codice miniato di Kildare, 5 maggio 2014 (http://www.faredecorazione.it/?p=3325). 〈2〉 Due testi di carattere generale sulla storia, la tecnica e l'estetica della miniatura: J.J.G. Alexander, I miniatori medievali e il loro metodo di lavoro, Modena, Panini, 2003 (ed. orig. 1992); O. Pächt, La miniatura. Una introduzione, Torino, Bollati Boringhieri, 1987 (ed. orig. 1986). In alto: pagina dallo "Speculum Ecclesiae" (particolare che mostra un capolettera "D" miniato per errore al posto di un "B"), sec XII, Londra, Bodleian Library.