Di questi tempi, le commesse d’arte pubblica certo non abbondano. A maggior ragione, sorprende la frequenza con cui i pochi fortunati autori lamentano i compromessi, le modifiche, i mutamenti in corso d’opera loro imposti dai committenti. I committenti, a loro volta, spesso non nascondono l’insoddisfazione per la difficoltà di trovare un accordo che salvi, insieme all’identità dell’artista, anche la propria. Si potrebbe obiettare che, alla fin fine, è la qualità dell’opera a dirimere le ragioni e i torti. Ma quale qualità?
La storia insegna che il rapporto tra artisti e committenti non è mai stato idilliaco, e che non sempre ne sono nati dei capolavori memorabili. Eppure le opere d’arte maggiori, minori e perfino minime che i secoli hanno accumulato nelle strade e nelle piazze delle nostre città, funzionano. Esse sfidano il trascorrere del tempo, continuano a parlarci. Ma da dove viene questa loro capacità? Non certo dall’antichità e dagli anni di servizio che, si dice, conferirebbero loro una particolare aura: ipotesi assai gettonata ma senza alcun fondamento. La risposta sta semmai nella differenza che vi è fra il creare autisticamente, in nome di una presunta ed esclusiva poetica personale, e il creare artisticamente, in funzione della comunità civile.
Per accedere a quest’ultima modalità, negletta dalla cultura contemporanea, occorre ritrovare il terreno su cui artista, committente e pubblico possano nuovamente incontrarsi. E non può che essere il terreno classico del decoro, ossia la declinazione della forma secondo i protocolli dell’ordine, della compiutezza, del rigore logico. Senza di ciò vi è solo la futilità dell’oggetto che, fuori dalle sedi espositive deputate alla sua consacrazione critica, non solo non sa invecchiare, ma spesso non è nemmeno riconoscibile in quanto opera d’arte.
In alto: Rosone nella facciata del Duomo di Lodi, seconda metà secolo XIII.