Se folle è stata la premessa, delirante è il successivo sviluppo del ragionamento di Loos, impermeabile a qualunque evidenza. Il suo fanatismo comincia a trapelare in certi toni messianici, da predicatore mormone. Il fatto che noi non possediamo nessun banco da falegname carolingio ma abbiamo eretto sontuosi palazzi per conservare qualsiasi cianfrusaglia decorata, dovrebbe indurre il nostro filosofo ad una maggior cautela argomentativa, ma così non è. Abbagliato dalla mistica visione di una Sion dalle bianche muraglie (che a dire il vero evoca più i lager e i gulag di un ‘900 ormai incombente che non la Gerusalemme biblica), e facendo leva su alcune tendenze in atto, Loos si lancia in affermazioni categoriche contro l’ornamento.
Ma qual è il contesto storico in cui Loos opera? All’inizio del secolo XX, il ciclico processo di obsolescenza della decorazione del secolo precedente è ormai al capolinea: l’ornato di uso corrente non corrisponde più ai gusti di una nuova società che cavalca la rivoluzione industriale. Il problema non è nuovo: ogni due generazioni l’idea di Decoro muta, quindi si deve provvedere ad una revisione del repertorio ornatistico. Paradigmatico, in questo senso, è l’avvicendamento fra Rococò e Neo-Classicismo, seguiti poi dall’avvento dei riformatori ottocenteschi come Owen Jones, Welby Pugin e il movimento Arts & Crafts e, nel novecento, della Bauhaus. Senza entrare nel dettaglio, ci interessa solo osservare come la dinamica del ciclico aggiornamento dell’idea di Decoro imponga la revisione del repertorio ornatistico – che è la parte concreta che poi si declina negli oggetti d’uso – con cadenza circa cinquantennale. La nuova cultura elabora un nuovo repertorio ornatistico e risolve il problema del Decoro, che comunque permane. Agli inizi del secolo XX questo processo stava effettivamente maturando, con la crisi dell’eclettismo ottocentesco.
L’equivoco di Loos consiste nello scambiare questa crisi fisiologica per un tracollo ontologico dell’idea stessa di Decoro, individuando nell’estetica dei trafilati e dei laminati industriali il punto di arrivo della presunta evoluzione sociale, di cui la cultura occidentale sarebbe portatrice. Da qui egli prende le mosse per buttare, come si suol dire, “il bambino con l’acqua sporca”: assieme all’ornato egli rifiuta anche il Decoro, avallando l’equivoco modernista che si propone di rileggere in chiave funzionale anche il problema etico. Tre sono le questioni poste sul tappeto da Loos: a) l’intervento diretto dello Stato sulle questioni di Decoro, letto da Loos sempre come “ornamento”; b) la politica autoritaria e militarista dello Stato austriaco, dove le pezze da piedi citate da Loos alludono alla leva militare triennale; c) considerazioni generali sulla natura degli Stati (si noti la definizione di “basso livello civile” per indicare prassi tradizionali, non-moderne).
Il nodo gordiano che Loos cerca invano di tagliare con qualche luogo comune pseudorivoluzionario, è proprio quello della funzione etica del DecoroLa non comprensione della necessità civile del Decoro deriva dalla rimozione – tipicamente novecentesca e ideologizzata – dell’idea di etica. Il pensiero classico considera fondante per la polis la questione del comportamento civile (ethos) dei singoli, presupponendo che dalla rettitudine dei suoi cittadini derivi la virtù di uno Stato. Basilare è quindi l’idea di “virtù civile”, intesa come retto comportamento privato, dalle simmetriche conseguenze pubbliche. Forza, coraggio, sapienza e temperanza vengono considerate, in questa chiave, come virtù portanti di un sistema etico, declinabile anche in ambiti più specifici (magnanimità, giustizia, eccetera). I testi aristotelici sono canonici in questo senso, e ad essi si rimanda per ogni approfondimento. Ciò che qui ci interessa è capire come il Moderno si sia posto rispetto a questi temi.
In sintesi si può dire che la questione etica, così come era stata affrontata e risolta dalla cultura occidentale, venga elusa a favore di due tesi contrapposte: la nuova “etica” del lavoro industriale e – ad essa ostile ma anche conseguente – la “morale” della rivoluzione proletaria. In sintesi: l’industria, incarnazione della scienza positiva e manifestazione diretta dell’illuministica Dea Ragione, redimerà l’umanità attraverso il progresso. L’uomo evoluto ha perciò il dovere etico di aderire alla nuova religione industriale e di praticarne i riti (divisione del lavoro, razionalizzazione della vita, massificazione della cultura, eccetera). Sennonché la nuova classe di imprenditori-padroni, autoproclamatisi sacerdoti del nuovo culto, tiene per sé tutti i vantaggi connessi, lasciando gli svantaggi alla classe lavoratrice (Robber Capitalism, cioé capitalismo di rapina, come venne definito negli USA). Di qui l’imperativo morale, per i proletari di tutto il mondo, di unirsi per attuare una rivoluzione che dia allo Stato il controllo dell’economia, sottraendolo ai privati. Anche in questa seconda visione, l’industria è concepita come ente sacro, ma lo Stato, in quanto istituzione sovra-individuale, è considerato il soggetto più adatto a governarla. Una classe sacerdotale “fai da te” viene sostituita con una istituzionale, designata dal partito degli operai.
Di qui, tre fondamentali conseguenze: a) il dogma industrialista, che vede comunque il sistema industriale come paradigma per interpretare il mondo; b) la concezione dello Stato come entità “sacerdotale” separata dal popolo, sia esso borghese o proletario, c) la divisione della società in classi, concepite come caste, cioè come livelli intransitabili (il proletario nasce e muore proletario). Eretica per entrambi gli schieramenti è l’idea che il lavoratore, intraprendendo l’attività autonoma di artigiano, caratterizzata dai bassi investimenti e dall’alta professionalità, possa avere successo e redimere se stesso attraverso la trasformazione della sua bottega in piccola o media industria. E’ questo, sia detto per inciso, il modello che in Italia ha decretato il successo del Triveneto, il cosiddetto “Nord-Est”, in contrapposizione all’area del “triangolo industriale” (Genova, Torino, Milano) più fedele al modello ortodosso (grande industria e proletariato urbano).
È evidente, pur senza addentrarci in questioni più complesse, che gli assiomi comuni hanno generato steccati ideologici anch’essi comuni all’una e all’altra parte. Vale la pena ricordare, a questo punto, che il principio motore di tutto il sistema moderno era la promessa di redenzione affidata al motto “tutti si arricchiranno”, e che proprio la presa di coscienza dell’impossibilità di raggiungere questo obiettivo ha determinato, negli anni ’80 del secolo scorso, il tracollo del Moderno e la sua lenta agonia “post-moderna”. Questo solo per dare prospettiva storica alle iniziali, enfatiche affermazioni con cui ci stiamo confrontando. Loos, infatti, fra i vari luoghi comuni, ne raccatta alcuni anche dall’agone politico-ideologico. L’idea di Stato inteso come entità diversa da quella di popolo, è un portato della cultura anarchico-socialista che Loos raccoglie per strada, interpretando (semplicisticamente) l’autoritarismo dell’Impero Asburgico, quale esempio emblematico di intromissione degli Stati nelle questioni di Decoro, al fine tenere sottomessi i popoli. Per Loos, lo Stato che impone la leva triennale è lo stesso che obbliga anche a ornare le suppellettili, e la finalità non può che essere quello di mantenere i sudditi ad “un basso livello civile”. Separando le due questioni, noi oggi dobbiamo convenire che, dal punto di vista etico, se lo Stato è l’espressione politica di un popolo, allora è sua competenza e facoltà tutelare (senza ovviamente coartare la libertà dei cittadini) il Decoro. Tant’è che le attuali Commissioni Edilizie, che si occupano di metrature ed impianti sanitari, sono eredi delle Commissioni d’Ornato, che nel secolo XIX valutavano appunto il Decoro delle facciate dei palazzi urbani. Si è visto, però, che per ammettere il Decoro bisogna ammettere tanto che l’etica esista, quanto che vi sia osmosi fra i vari ceti sociali. Chi ragiona per classi, invece, trae conclusioni diverse.
È chiaro, insomma, che questo raccattare luoghi comuni di varia provenienza non corrisponde in Loos ad una teoretica ben precisa. Egli, cioè, non fornisce alle proprie tesi motivazioni generali o di principio, anzi, nel luogo in cui dovrebbe quantomeno cercare di darle, ammette che “…a me piace così”. La frase si commenta da sé: con deformazione tipicamente modernista, Loos vede nel proprio ombelico il centro del mondo.
In alto: Adolf Loos, edificio Goldmann-Salatsch, 1909-11, Vienna. Sotto: Adolf Loos, casa per il quartiere residenziale Werkbundsiedlung, 1932, Vienna.