Eclettismo è quella sensibilità vasta, ramificata ed onnivora che rappresenta il cuore pulsante dell’arte europea dell’800. Mescolando spunti stilistici e iconografici eterogenei, abbondando nelle citazioni, indulgendo al revival, mettendo mano a tutte le risorse della cultura, del mestiere e della tradizione, l’eclettismo è una forma mentis che affiora ovunque nell’arte ottocentesca, senza distinzioni di linguaggio e di tecnica. Pittori, scultori e architetti del secolo XIX mostrano grande disinvoltura nel far convivere più registri espressivi, nell’attingere a fonti di ispirazione diverse, nello sfoggiare erudizione, soprattutto nell’imperante genere storico-celebrativo-dinastico. E’ appunto questo l’atteggiamento eclettico: un atteggiamento colto, enciclopedico fino all’esibizionismo e al kitsch. Esso trionfa alle esposizioni ufficiali, informa l’insegnamento accademico, viene alimentato da una committenza ricca e ambiziosa. Nemmeno le punte di più forte dissenso rispetto a questo modo di fare arte – la pittura impressionista francese ad esempio – sono esenti da compromessi eclettici.
Eclettismo non è tanto una corrente quanto piuttosto un modo di essere “trasversale”, tipico di una civiltà al suo apice, una civiltà consapevole di un grande passato e di un presente radioso. L’artista eclettico pecca per eccesso di confidenza e di sicurezza, non certo di modestia e di riserbo. E se vi è un campo in cui tutto ciò si può toccare con mano, è quello dell’architettura e degli apparati decorativi che ad essa si applicano. Qui il secolo XIX non si fa mancare nulla: teatri, tribunali, ministeri, ville, palazzi, mostrano una incredibile quantità di variazioni sul tema degli ordini architettonici, una grande ricchezza di soluzioni nel campo dell’ornamentazione pittorica e plastica, una tendenza quasi congenita all’ostentazione e all’iperbole. Ma quando il livello inventivo è alto, nascono capolavori come il teatro dell’Opéra di Parigi (Charles Garnier) o i suoi omologhi di Vienna e Dresda (Gottfried Semper) o la Mole di Torino (Alessandro Antonelli), per non fare che pochi esempi tra i mille possibili.
In Germania e in Austria, cioè l’area culturale familiare a Loos, il discorso sull’Eclettismo si complica ancora di più. Nel senso che l’atteggiamento eclettico ha una partenza addirittura anticipata rispetto al resto d’Europa (sin dagli anni del Congresso di Vienna, 1814-15, e del successo dello stile Biedermeier) e non arriva mai alle audacie sperimentali, alle aperte rivolte che animano lo scenario francese e parigino in particolare. Insomma, Loos ha vita relativamente facile nel voler vedere nell’800 di casa sua, soprattutto nel campo delle arti applicate e degli oggetti d’uso, una sorta di scenario da operetta o da valzer di Strauss, misconoscendone gli aspetti più problematici e, come vedremo, trattando l’esperienza liberty-secessionista viennese alla stregua di un evento minore e trascurabile. E può così impostare quel gioco al ribasso, dalla logica apparentemente inoppugnabile ma in realtà arbitraria, teso a dimostrare che la mancanza di uno stile, anzi, la rinuncia ad uno stile quale che esso sia, è da vedere non come un punto di debolezza ma semmai di forza. Abbiamo finora avuto molti stili? Addirittura tutti insieme, mescolati l’uno all’altro? Ebbene, il rimedio consiste nel non averne nessuno. Questa è la logica del “tanto peggio, tanto meglio” cui Loos sacrifica ogni altro ragionamento.
Dopo l’iniziale excursus antropologico a cavallo tra infanzia, selvaggi e criminali, l’autore di Ornamento e delitto passa ora ad altri argomenti e ad altri toni. Smessi i panni dello scienziato di scuola lombrosiana, egli indossa quelli del Messia annunciatore di verità, la vittima sacrificale che si immola sull’altare del Nuovo: «Guardate, il momento si approssima, il compimento ci attende: Presto le vie della città risplenderanno come bianche muraglie! Come Sion, la città santa, la capitale del cielo. Allora sarà il compimento». E subito dopo, con un ulteriore cambio di passo, si atteggia a rivoluzionario intento a smascherare la tirannide: «Perché in fondo è pur vero che ogni Stato parte dal presupposto che un popolo dal basso livello civile è tanto più facile da governare». Come a voler affermare fin da subito – ed è un’altalena dialettica che si ripropone lungo tutto il saggio – che l’ornamento fa a pugni non solo con la Razionalità e il Progresso, ma anche con la Storia e perfino con la Provvidenza, qualunque essa sia, umana o divina.
A questo punto bisogna ammettere che un titolo come Ornamento e delitto, pur così tremendamente serio, non riassume appieno il progetto di Loos, o quantomeno non ne riassume che la componente profana. Sì, perché in Adolf Loos, figlio di quella Moravia che, ancor prima di Lutero, aveva conosciuto la predicazione di Jan Hus, e dove più ferocemente aveva imperversato la guerra fra Protestanti e Cattolici, c’è anche una componente sacra, o per meglio dire fanatica e iconoclasta, come in un redivivo Savonarola che predica il “bruciamento delle vanità”. E se proprio le si volesse dedicare un titolo, dovrebbe essere piuttosto Ornamento e peccato.
Come valutare tutto ciò? Si tratta di un atteggiamento sincero, che viene dal profondo della sensibilità di Loos, o di una recita abilmente condotta? Probabilmente sia l’uno che l’altro, come avviene in tutte le personalità forti ma al tempo stesso disturbate, abili nello sfruttare a proprio vantaggio anche i lati più ambigui del proprio io. Per ora accontentiamoci di notare che, quanto a eclettismo, Loos non è secondo a nessuno. La sua disinvoltura nell’accostare tesi eterogenee, nel mescolare le carte in modo tale da non focalizzare mai l’attenzione su nessun specifico problema, è il tratto davvero caratterizzante di Ornamento e delitto.
In alto: Hans Makart (su disegno di), Vetrata, 1882-86, Villa Hermes, Vienna. Sotto: cartolina d'epoca raffigurante il Neues Hofburgtheater di Vienna.