Eugenio Montale (Genova 1896-Milano 1981) è stato non solo uno dei maggiori poeti italiani del secolo scorso ma anche un acuto saggista e critico e, secondo una prassi comune ad altri protagonisti della letteratura novecentesca, da Pirandello a Buzzati, un pittore dilettante di notevole talento. Fra le tante riflessioni sulla condizione dell'artista che il secolo XX ha prodotto, questa sua che qui presentiamo spicca per l'ironia con cui smonta i luoghi comuni che fanno del “nuovo”, dell' ”originale”, dello “scandaloso” altrettante figure archetipiche. Idoli di un culto iniziatico, autoreferenziale, che vorrebbe spacciarsi per religione rivelata. La breve prosa intitolata Il pittore vide la luce nel 1971 in un volume pubblicato da Montale per le edizioni Scheiwiller, col titolo La poesia non esiste. Oltreché nelle successive edizioni delle opere complete di Montale uscite presso Mondadori, esso compare anche in P. Barocchi (a cura di), Storia moderna dell'arte in Italia, vol. III-2, Tra Neorealismo e anni novanta, Einaudi, Torino 1991, pp. 377-379.
Il pittore vorrebbe dipingere un bel prato verde smeraldo, una vacca che bruca i papaveri, due covoni di paglia sullo sfondo, e in alto un cielo azzurro offuscato da riccioli di nubi. Vorrebbe ma non può farlo. Ci si è spesso provato ma una voce interiore gli ha detto: alto là, fermati. «Non possumus!»
Il pittore è stato informato che scopo dell’arte sua non è dipingere il vero ma le tempeste del suo cranio, la sua visione del mondo, la sua Weltanschauung. Ora nel suo cranio non c’era proprio nulla di simile. Nato per non pensare gli hanno fatto credere che deve invece dar forma e colore all’Idea.
Praticamente, l’Idea non è affatto un’idea, ma consiste nel seguire una certa formula che si ritiene essere nuova, o moderna o «progressiva» rispetto alle altre. Chi ha detto questo? Non il pittore. Il pittore non ha detto nulla. Egli ha però delegato il giudizio sull’arte sua a una congrega di supposti competenti, dei quali deve accettare l’imbeccata e il giudizio. Il pittore dipinge per delega, dipinge il pensiero degli altri.
Il pittore ha mangiato la foglia e sa che ciò che ieri era progresso (manichini, uova di struzzo, ellissi e spirali) può essere oggi segno di rammollimento. Egli sa pure che potrebbe o dovrebbe reagire, volgersi a un nuovo realismo, dipingendo contadini dai piedi sporchi, pidocchiosi peoni che si contendono una fetta d’anguria, scioperanti a singhiozzo contro un pettine di fumaioli ecc.; ma sa anche che questo potrebbe essere considerato un abietto pompierismo quando la bussola della Storia girasse in altra direzione. Obbligato, non a pensare o ad agire ma a «fare sempre il contrario», il pittore si trova in paurose difficoltà.
Il pittore è così costretto a trovare una ricetta che gli permetta di cucinare la sua personalità in tutte le salse, anche nell’imprevedibile salsa di domani. Una ricetta così larga che tutto possa entrarci e tutto possa uscirne. Questa incertezza potrebbe chiamarsi «disponibilità, attesa della Grazia, crisi della pittura borghese, senso della quarta dimensione», ecc.
Il pittore parte per la montagna deciso a ritemprarsi a contatto con la natura e torna dopo aver dipinto una sedia attaccata a un muro; parte per la Costa Azzurra e ne riporta una donna con due nasi campeggiante su un collage di giornali sportivi. Si chiude nel suo studio, guarda attentamente la modella e ne ricava una locomotiva in corsa. Il pittore ha «superato» le sue precedenti maniere ma esse non esistono.
Il pittore non ha più capelli lunghi né clienti. Il pittore ha abitato o abiterà a lungo a Parigi. Il pittore vive con la seconda moglie, è sfruttato dal suo mercante ed è occupatissimo a fabbricare i suoi falsi. Che si direbbe di lui se nessuno lo plagiasse e imitasse?
Il pittore è sempre ammirato per i suoi quadri di ieri, non per quelli di oggi. Deve quindi produrre in serie i suoi quadri di ieri. Quelli di oggi li farà fra una ventina d’anni.
Il pittore è sensibile all’attuale «rinascita del sentimento religioso». Ha affrescato a tubi di stufa una cappella in Svizzera e un prete cubista gli ha dedicato una monografia rilegata in cellophane. Il pittore non dipinge più: scrive articoli, pamphlets, polemizza, attende che sorga una nuova architettura, degna di suoi futuri affreschi o musaici.
Il pittore può dipingere in un modo o nell’altro, e questo poco importa. Ciò che importa è ch’egli abbia «imbroccato» il suo critico, l’uomo che presta un significato all’opera sua e lo impone agli altri.
Quando un pittore imbrocca non uno ma due o tre critici, e questi si azzuffano tra loro, egli deve mollarne uno o due e restar fedele a quello che sa strillare più forte o che ha una migliore clientela.
Il pittore ha tre strade: moderata stilizzazione del vero, realismo illustrativo o fotografico e astrattismo. Egli pensa che sia opportuno batterle tutte e tre, dividendo in tappe o in «periodi» la sua attività. Spera così che almeno uno dei tre periodi gli concili il favore di chi fabbrica la pubblica opinione.
Il pittore scopre con stupore che il suo barbiere, il suo sarto, il suo portinaio dipingono meglio di lui. Sono i «pittori della domenica», i soli che posseggano una tecnica autentica, in un’età che ha distrutto la tecnica accademica, trasmissibile. Tenta di imitarli ma non riesce che a un pompierismo della domenica. E’ come una cornacchia che si sforzi di imitare l’usignolo.
Il pittore non può (come lo scultore) deporre le sue uova, i suoi ferri da stiro, i suoi portaombrelli nei giardini, nei sottopassaggi, nelle nicchie delle case, sui tavolini, sotto i tavolini. Egli ha bisogno di mura e i soli che lo ammirano non hanno pareti disponibili e dividono un appartamento in quattro. Solo un’umanità che disponesse ancora di palazzi o abitasse in grotte potrebbe ricordarsi di lui. (Ma probabilmente coloro che dipinsero le grotte di Lascaux non erano pittori di mestiere).
Il pittore è vittima di un equivoco: è nato troppo tardi o troppo presto. Fortunati coloro che dipinsero «le croste del Seicento»! Moriranno anch’essi ma per qualche secolo sono riusciti a galleggiare.
In alto: il giovane Eugenio Montale fotografato nel 1918, durante la Grande Guerra. Sotto: copertina de "La poesia non esiste", Scheiwiller, Milano 1971.