Skip to content

Oggetti e corpi alla deriva. Dal naufragio di Théodore Géricault alle acque stagnanti di Zhang Huan e Bong Joon-ho

image_pdfScarica PDF - Download PDF

di Micla Petrelli

Nei nostri tempi, la capacità umana di produrre gli oggetti e i loro contenitori, di edificare le città, progettare i paesaggi, si misura sempre più con la consapevole evidenza delle conseguenze, degli effetti di tutto questo realizzare, costruire. Messo sotto scacco dai suoi stessi progressi, essendosi l’esercizio di potere sugli spazi e le cose rivoltato contro, quello che resta dell’uomo, se proprio vogliamo far ricorso a una immagine, è il corpo della vittima strangolata issata sull’albero di una zattera alla deriva. Resta il disumano.

Théodore Géricault tra il 1818 e il 1819 dipinse una scena di naufragio, nota come La zattera della Medusa, nella quale il punto di massima tensione ascensionale a cui lo sguardo dell’osservatore viene condotto è il drappo sventolato da un sopravvissuto alla vista di un brigantino all’orizzonte: la speranza del salvataggio. Tuttavia la storia documentata dai superstiti di quel naufragio racconta piuttosto di ammutinamenti, cannibalismo, disperazione di carni dilaniate. Géricault sceglie una scena di speranza, come se la sua preoccupazione principale fosse consistita, scrive Julian Barnes, «nel non essere: 1) politico; 2) simbolico; 3) teatrale; 4) oltraggioso; 5) terrificante; 6) sentimentale; 7) documentario; o 8) inequivocabile» 〈1〉. Sceglie di dipingere un drappo sventolato da un braccio energico al posto di un corpo, come gli altri, consegnato ai flutti e alla follia.

Jean Louis Théodore Géricault, La zattera della Medusa, olio su tela, cm. 491 x 716, Parigi, Louvre.

Sebbene la zattera della Medusa sia stata costruita a regola d’arte, così come riportano i documenti, in realtà, ciò non le impedisce di ridursi ad un relitto: finisce con l’essere a tutti gli effetti il simbolo della catastrofe. Quando viene messa in mare dai naufraghi è perché fosse trascinata a riva affinché tutti potessero essere messi in salvo. «Un piano perfetto ma, come due di loro avrebbero in seguito affermato, tracciato sulla sabbia, presto dispersa dal vento dell’egoismo» 〈2〉.

È oramai chiaro che le opere da noi realizzate con le migliori speranze, quanto meno a partire dalla modernità in avanti, e che dovevano funzionare, almeno nelle intenzioni, da affidabili «punti di applicazione» delle nostre azioni (le definisce così Maurice Merleau-Ponty guardando al mondo esitante di Cézanne) 〈3〉, sembrano indicarci una sola consapevolezza: di incrollabile e necessario non resta alcunché. Nessuna illusione sembrerebbe sopravvivere al riguardo. La furia dei flutti marini nella scena di naufragio di Géricault, residuo di un immaginario romantico o di modelli letterari e figurativi particolarmente resistenti, era ancora in grado di rappresentare il modificarsi del destino, una svolta nella storia umana e delle sue realizzazioni. «Una partitura, un quadro, un libro o una rivoluzione», scriveva José Saramago 〈4〉, potevano farsi trasportare dalle onde tra approdi e reflussi, attraverso il movimento, certo, ripetitivo, ma pur sempre dagli esiti imprevedibili, dei marosi. Era ancora possibile, insomma, domandarsi quali oggetti volta a volta si sarebbero potuti salvare, sospinti dalla forza del tempo e della storia fino a raggiungere la riva sabbiosa del presente. Per incagliarvisi oppure venire respinti al largo.

L’acqua in Géricault e per Saramago, a quasi due secoli l’uno dall’altro, con finalità, linguaggi e in circostanze differenti, funziona ancora da metafora visiva. È l’acqua in movimento che trascina, porta, sostiene, ingoia, in cui oggetti e corpi affondano e da cui pure possono riemergere e salvarsi. Un’acqua vitale, insomma. Ancor più se pensiamo a La zattera di pietra, il romanzo con il quale lo scrittore portoghese immagina che per una improvvisa crepa lungo i Pirenei Orientali, la Penisola Iberica si stacchi dal continente europeo e, come una enorme zattera di pietra, tra oscuri presagi ed eventi miracolosi, incominci a vagare nell’Atlantico, verso l’Africa e le Americhe.

 To
Zhang Huan, To Raise the Water Level in a Fishpond, 1997, performance (courtesy Zhang Huan).

Possiamo dire la stessa cosa per il presente? Che l’acqua possa ancora funzionare, nonostante tutto, da elemento talmente dinamico e, tutto sommato, rigenerativo, palingenetico? Prendiamo ad esempio l’immagine fotografica che documenta una performance allestita nel 1997 dall’artista cinese Zhang Huan, To Raise the Water Level in a Fishpond.

L’acqua qui ha la forma di un acquitrino, uno stagno poco profondo e ben circoscritto nel parco di una megalopoli, Pechino, ricavato all’interno di un contesto urbano, tra grattacieli e bitume, una superficie ferma in cui stanno immersi, impassibili, corpi dimessi e ieratici allo stesso tempo. Figure che si limitano ad occupare lo spazio definito dai loro corpi, che stanno situati e in posizione verticale, con i piedi su un fondale melmoso, in una sorta di equilibrio mantenuto grazie al connubio tra resistenza dell’acqua, entropia delle forme e forza di gravità. L’artista ci ricorda che a questi corpi, nel loro insieme, forse, è dato modificare il livello dell’acqua, stando alle leggi della fisica. È nell’immobilità, nell’inazione, una sorta di anti-hybris, che sperimentano la possibilità di modificare, seppur minimamente, l’ambiente, il loro habitat, senza ancor più disumanizzarlo. L’elemento acquatico, da parte sua, come all’origine della terra, è resistente e nel contempo responsivo, disponibile a cambiare forma e livello, pur restando lo stesso. Tutto cambia ma restando lo stesso, in un tempo trasceso e indeterminato.

In tutto questo, tra la maestosità delle onde in rivolta della zattera di Géricault e la superficie acquatica piana di Zhang Huan, c’è ancora posto, diremmo spazio, per l’immaginario, perché l’umano esplori se stesso e i propri limiti, anche estremi. Di ben altro tenore è il mondo oramai attraversato da fratture irreversibili, polarizzazioni drammatiche e insieme grottesche che il regista sudcoreano Bong Joon-ho mette in scena nel film Parasite (2019). Da incarnazioni delle storture profonde che il capitalismo ha prodotto, le case nel film (dal sofisticato modello architettonico della casa borghese al sordido sottoscala) sono la rappresentazione eloquente della condizione di esistenza dei loro abitanti. Tra falsificazioni e imbrogli messi in atto per il puro spirito di sopravvivenza, i personaggi “parassiti” vivono un habitat in cui, ad un certo punto, a causa di un nubifragio, gli oggetti, le suppellettili, le cose ordinarie e deteriorate di cui quotidianamente si circondano si ritrovano nel caos dell’accatastamento più casuale. L’acqua ha invaso la casa-sottoscala, tutto è maceria e relitto che non va da nessuna parte, un mondo-set di rifiuti galleggianti, in cui il dramma si trasforma immediatamente in occasione per un selfie.

Un fotogramma dal film di Bong Joon-ho “Parasite” (2019).

Le acque di simili naufragi non hanno oramai più nulla di epico, di tragico, di irrimediabile. Non hanno la forza mitopoietica di certe partenze o approdi (la zattera di Géricault o di Saramago), non trasportano nulla e non hanno neppure una speranza di vita ciclica. Le metafore marine si incagliano in immagini di inerzia e sospensione (i corpi stagnanti di Zhang Huan). Certo ci si può mettere sempre in salvo, al limite, sommersi dai mucchi di cose che nella modernità di Cézanne potevano ancora funzionare da “punti di applicazione” delle azioni umane. Non c’è spinta che muova simili acque, non c’è un passato alle spalle, «tutto il tempo vissuto che ci porta con sé e ci spinge avanti» che immaginava, da visionario qual era, Saramago 〈5〉. L’orizzonte del disumano, qui, si offre nella sua più piena e sostanziata evidenza, e da esso, per sottrazione, non è ricavabile l’umano. Il disumano qui è categoria che non conosce versioni “positive” o “negative” dell’immagine e dell’interpretazione, non ha stratificazioni né si rende disponibile a rovesciamenti o ad operazioni estrattive (il dis di “disumano”, in fondo, indica una operazione di sottrazione della sostanza dell’umano dal disumano). È per questo candidabile, con tutta la sua densa ovvietà, ad essere davvero la cifra del nostro tempo e il proprium delle sue realizzazioni.

〈1〉 J. Barnes, Géricault e la catastrofe nell’arte, in Con un occhio aperto, Einaudi, Torino 2019, p. 25.

〈2〉 Ibidem, p. 14.

〈3〉 M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne, in Senso e non senso, Il Saggiatore, Milano 1962, p. 70.

〈4〉 J. Saramago, L’autore si spiega, Feltrinelli, Milano 2021, p. 17.

〈5〉 Ibidem.

BIBLIOGRAFIA

• Barnes, J., Con un occhio aperto (2015), Einaudi, Torino 2019. 

• Baudrillard, J., Il sistema degli oggetti (1968), Bompiani, Milano 2003.

• Merleau-Ponty, M., Senso e non senso. Percezione e significato della realtà (1948), Il Saggiatore, Milano 1962.

• Ortega y Gasset, J., La disumanizzazione dell’arte (1925), Luca Sossella, Roma 2005.

• Petrelli, M., Arte di questo mondo. Pagine, schermi, visioni, Meltemi, Milano 2019.

• Saramago, J., La zattera di pietra (1986), Feltrinelli, Milano 2017.

• Saramago, J., L’autore si spiega, Feltrinelli, Milano 2021.

Homepage: Jean Louis Théodore Géricault, La zattera della Medusa, particolare (Wikimedia).  
Sotto: Veduta dall'alto della zattera della Medusa al momento del suo abbandono, incisione dal disegno originale di Alexandre Corréard, tratta dal libro di H. Savigny e A. Corréard, "Narrative of a Voyage to Senegal in 1816... comprising an Account of the Shipwreck of the Medusa", Henry Colburn, Londra 1818 (Wikimedia).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *