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Tra architettura e decorazione: all’origine dei luoghi topici

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Ogni popolo costruisce la propria casa usando i materiali tipici del territorio in cui vive. Naturalmente, tali materiali impongono tecniche di lavorazione e modalità costruttive specifiche. Il dato tecnico inizialmente legato a precise necessità costruttive si stabilizza nel tempo, diventando principio estetico. In altre parole, le soluzioni inventate per risolvere il problema dell’edificare con questo o con quel materiale assurgono gradualmente a invenzioni stilistiche, passando dal livello della tecnologia edile a quello dell’estetica architettonica. Esse contribuiscono così alla definizione dell’identità del popolo che le ha elaborate.

Legno, pietra e mattoni sono i materiali tradizionali più diffusi nell’edilizia. Il tipo di legno, pietra o mattone che ogni popolo è in grado di reperire o di produrre spiega le innumerevoli tipologie edilizie e le conseguenti categorie architettoniche che la storia ricorda e che sono tuttora presenti nelle diverse aree geografiche del pianeta. La tradizione tecnica diventa a tutti gli effetti tradizione culturale.

Paradigmatico in questo senso è il succedersi delle tappe che condussero alla elaborazione del tempio greco, passando dalla primitiva struttura lignea alla classica struttura in pietra. Le due aree culturali della Grecia antica, quelle che chiamiamo dorica e ionica, avevano già individuato, anche sulla base delle rispettive situazioni ambientali e climatiche, autonome soluzioni costruttive al problema del tempio realizzato con legno ed altri materiali vegetali. Un’illustre tradizione, ad esempio, vuole che le scanalature della colonna ionica in pietra derivino dall’archetipo costruttivo ottenuto legando insieme fasci di canne, ossia il materiale da costruzione più diffuso nelle zone palustri dell’Asia minore di antica colonizzazione greca.

L’avvicendamento del legno con la pietra che le poleis greche in piena ascesa economica dovettero affrontare, comportò non pochi problemi, di ordine sia statico che formale. Con il legno, ad esempio, un’esile colonna basta a sorreggere un lungo architrave, mentre la colonna in pietra deve avere una circonferenza molto maggiore e gli architravi, pur se imponenti, consentono aperture (luci) assai limitate. Ma è proprio nel momento in cui il patrimonio tecnico comincia ad essere recepito anche come insieme di soluzioni esteticamente qualificanti, che coloro se ne avvalgono vi si riconoscono e ne diventano culturalmente consapevoli. L’esigenza ormai improrogabile di costruire templi in pietra non poteva che radicarsi nella tradizione stilistica costituita dalle forme dei precedenti templi lignei.

Cartolina primonovecentesca riproducente il fregio del tempio “E” di Selinunte, sec. VI a.C.

Dal punto di vista architettonico, il tempio egizio aveva sicuramente una forma più consona al materiale lapideo impiegato, ed avrebbe potuto costituire un modello migliore. Tale forma, però, era diametralmente opposta all’idea di sacro espressa dalla struttura lignea degli originari templi greci. Nel momento in cui si vide costretta ad utilizzare la pietra, la cultura greca non poté fare a meno di salvaguardare la propria identità e la propria idea di “sacro”, elaborando soluzioni costruttive per così dire “contro natura”, in quanto innestate su un materiale differente da quello per il quale erano nate.

Quando i romani assunsero la cultura greca come punto di riferimento privilegiato, la vicenda del tempio poteva ormai dirsi conclusa, nel senso che le due tipologie, dorica da un lato e ionico-corinzia dall’altro, avevano raggiunto i loro esiti definitivi, canonici. Ignara delle vicissitudini precedenti, Roma assunse i templi greci in pietra come modelli tout court, senza distinguere tra le differenti aree culturali di cui erano espressione. Per i romani, Dorico, Ionico e Corinzio erano nulla più che stili, utilizzabili a scopo di decoro in base alla funzione dell’edificio. Equivocando la tradizione architettonica delle città-stato greche, i romani ne costruirono ex novo una propria, in funzione del loro impero.

L’equivoco romano divenne norma per il Rinascimento, il quale, a sua volta, fraintese largamente le frammentarie e lacunose fonti romane. I cinque ordini dell’architettura classica, così come li conosciamo oggi, e la definizione dei loro canoni esecutivi, sono in realtà un’invenzione tutta rinascimentale, succoso frutto del fraintendimento di cui sopra. Perduta la memoria degli originari archetipi costruttivi, i motivi da essi derivati vennero assunti di per se stessi come un insieme di “luoghi topici”, ossia come repertorio di forme precostituite, convalidate dalla tradizione e dall’uso 〈1〉.

Un esempio concreto chiarirà meglio in cosa consistano questi processi di trasformazione e riutilizzo. Si pensi al triglifo, vale a dire l’ornamento architettonico che normalmente si alterna alla metopa nella decorazione del tempio di ordine dorico. Ebbene, già il trattatista romano Vitruvio descrive il triglifo come una tavoletta recante il noto motivo a incavi paralleli, inchiodata in testa alle travi orizzontali della cella, tagliate a filo della parete 〈2〉.

. Tuttavia, le moderne consapevolezze archeologiche ci consigliano di risalire oltre Vitruvio, ipotizzando una fase più arcaica, una sorta di “preistoria” del triglifo.

Giulio Romano, Fregio con triglifo “scivolato”, 1534, Mantova, Palazzo Te.

Nel tempio greco ogni trave era costituita da più tavoloni affiancati e distanziati fra loro di circa 2 centimetri, per consentire l’aerazione ed evitare il ristagno dell’acqua: una trave lamellare che ai due capi si presentava come una successione di volumi lignei verticali dagli spigoli smussati e separati l’uno dall’altro da uno stretto spazio vuoto (il “glifo”, la cavità appunto). Se questa è la situazione di partenza, si capisce come la tavoletta descritta da Vitruvio rappresentasse uno stadio evolutivo già avanzato ed autonomo, pur se idealmente collegato all’originario archetipo costruttivo determinato dal gioco delle terminazioni lignee e dei glifi. Proprio questo archetipo legittimava la tavoletta descritta da Vitruvio, la cui collocazione in testa alla trave andava a ricoprire il punto esatto in cui il motivo si era spontaneamente generato.

Naturalmente la forma della tavoletta, non essendo più conseguenza della struttura lamellare della trave ma frutto di una composizione deliberata, si prestava ad elaborazioni più complesse, non più subordinate a necessità strutturali come nell’archetipo originario. Questo corpus di invenzioni venne raccolto e trasposto in pietra prima dai greci e poi dai romani, talvolta anche col risultato di ingenerare dilemmi e incongruenze estetiche. E’ il caso del “conflitto angolare” nel tempio dorico: laddove, nei due lati corti della costruzione, il triglifo non avrebbe avuto ragione di essere secondo la logica del tempio ligneo, nel tempio lapideo esso rimase appunto come motivo topico lungo tutto il perimetro, ma con una serie di difformità e aggiustamenti dovuti all’incontro di un lato lungo e di uno corto sopra la stessa colonna, quella d’angolo appunto 〈3〉.

La definizione canonica del triglifo si deve, come detto, al Rinascimento. Ma quello descritto da Andrea Palladio nel suo fondamentale trattato dovrebbe in realtà chiamarsi “diglifo” perché ha appunto due glifi, cioè due cavità e non tre 〈4〉. Poiché infatti in origine i glifi erano determinati dal numero dei tavoloni che costituivano la trave, potevano esservi “diglifi” come “triglifi” o “tetraglifi”. Non solo, ma la rastrematura diamantata (cioè a 45 gradi) del glifo, individuata come ottimale e resa canonica da Palladio, è una soluzione tardoimperiale, mentre in precedenza i romani ne usavano anche di tonde. Né Palladio, che mutua le sue conoscenze da Vitruvio, menziona un possibile archetipo costruttivo situato a monte del triglifo.

In conclusione, si possono distinguere tre ideali stadi di elaborazione: a) vi è un dato tecnico originario, la testa della trave lamellare, la cui particolare conformazione a pieni e vuoti genera un archetipo costruttivo; b) da tale archetipo deriva un primo oggetto autonomo, la tavoletta sagomata e fissata in testa alla trave; c) col trascorrere del tempo, questo oggetto comincia ad essere percepito come “forma topica” e quindi elaborato e variato in quanto tale, come puro elemento di decoro.

Sarcofago di Scipione Barbato, 280 a.C., Roma Musei Vaticani.

Gli elementi stilistici che i greci avevano desunto dagli archetipi costruttivi del tempio ligneo, divennero presso le civiltà successive forme autonome, costituenti un repertorio di luoghi topici dell’architettura, utilizzabili nei contesti e nei modi ritenuti più opportuni. La loro autorità riposava su una tradizione prestigiosa, e ne faceva degli elementi idonei ad ornare ogni parte del manufatto architettonico. L’uso topico degli elementi derivati dall’architettura classica coinvolgeva pertanto sia le soluzioni compositive e costruttive proprie di ciascun edificio, sia la questione più generale del suo decoro, fornendo un campionario canonico di adeguati ornamenti. Questi tre aspetti – invenzione, edificazione e ornamento – costituirono un amalgama unitario in architettura fino all’inizio del secolo XX. Oggi siamo costretti ad analizzarli separatamente, e ciò rappresenta una forzatura rispetto alla tradizione millenaria che ci precede.

〈1〉 «Topica (dal greco topikà < tòpos = luogo), è un sistema di categorie concettuali ed astratte attraverso il quale è possibile scomporre la materia del discorso in nuclei argomentativi distinti, esempi o dati, a cui far ricorso per una determinata dimostrazione; per Aristotele si tratta, quindi, di una teoria di dispositivi logici usati per trovare le premesse (éndoxa) della conclusione a cui si vuole giungere. Nella retorica latina e, prima ancora, nella retorica dei sofisti, la topica è vista pure come una raccolta, quasi un prontuario, di spunti argomentativi, di temi, di consigli teorico-pratici e di procedimenti narrativi generici realizzabili in occasioni anche molto diverse fra loro.» M.P. Ellero, Introduzione alla retorica, Firenze, Sansoni, 1997, pagg. 62-63.

〈2〉 Vitruvio, De architectura, libro IV, paragrafo II-2. Cfr. Vitruvio, Architettura (testo critico, traduzione e commento di S. Ferri, introduzione di S. Maggi), Milano, Rizzoli, 2002, pagg. 233-37.

〈3〉 Per chi volesse approfondire la complessa vicenda formale, stilistica e costruttiva del tempio greco: G. Rocco, Guida alla lettura degli ordini architettonici antichi (vol I, Il dorico, vol II, Lo ionico), Napoli, Liguori, 1994-2003.

〈4〉 Vedi A. Palladio, I quattro libri dell'architettura, libro I, capitolo XV.

In alto: Tempio dei Dioscuri (particolare), 450 a.C. circa, Agrigento. Sotto: sequenza di triglifi nella trabeazione del Partenone.

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