di Ezio Raimondi
Filologo, critico letterario, docente universitario di Letteratura italiana, Ezio Raimondi (1924-2014) è tra i nomi di maggiore spicco nella cultura della seconda metà del XX secolo a Bologna. Come molti giovani intellettuali formatisi a Bologna fra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso (tra di essi Francesco Arcangeli, Enzo Biagi, Pier Paolo Pasolini, Roberto Roversi), anch'egli collaborò ad "Architrave", rivista mensile della Gioventù Universitaria Fascista (GUF) uscita fra il 1940 e il 1943, all'ombra del "fascismo di sinistra" patrocinato dal Ministro dell'educazione nazionale Giuseppe Bottai. Quello che qui pubblichiamo, scritto in occasione dei Littoriali del lavoro del 1942, è il primo testo a stampa di Raimondi, all'epoca diciottenne e appena iscritto alla Facoltà di Lettere dell'Università di Bologna. L'articolo si incentra su uno dei mestieri, l'artigiano stuccatore, cui era dedicata una sezione dei Littoriali. Ai fini di una sua corretta interpretazione, c'è da considerare qualche possibile refuso tipografico: in particolare, al quinto capoverso, la parola "usenzialità", che abbiamo modificato in "essenzialità". È proprio qui che l'intuizione di Raimondi prende forma: il rifiuto pregiudiziale dell'ornamento non è una risposta alla crisi dell'artigianato; semmai è un comodo alibi, in assenza di un'analisi culturalmente seria e approfondita. Gli anni a venire dimostreranno la bontà di questa tesi. Vedi E. Raimondi, Aurea modestia dello stucco, in "Architrave: mensile di politica, letteratura e arte", edizione speciale per i Littoriali maschili del lavoro, n. 2, 17 aprile 1942, p. 3.
Arte minore fra le minori arti di una pazienza francescana ma di una lievissima eleganza di miniatura: ecco l’arte dello stucco. Arte antica e ben nota all’uomo se già ne ritroviamo le prime vestigia nei palazzi di Cnosso e ne possiamo seguire i vari, molteplici sviluppi attraverso le diverse civiltà.
Ma prima di tutto, sarà opportuno dire che cosa sia lo stucco, l’impasto cioè di calce e pozzolana mista a polvere di marmo o di gesso, dalle cui finezze dipende la bontà, la durata, la solidità dell’impasto stesso e di conseguenza quella dell’opera (impasto la cui composizione occupava già la mente fertile dei romani Vitruvio e Plinio). Questo il dettaglio tecnico oltre il quale non crediamo opportuno andare. Ad ogni modo l’arte dello stucco non può certo definirsi un’arte autonoma ché anzi ha valore di arte complementare in quanto serve ad esaurire e chiudere in una perfetta circolarità artistica l’affresco, la volta, la parete od il colonnato; ma ha dunque la sua importanza in quanto, prescindendo dalle necessarie virtù di “finitura” ed a quello estetico di poter isolare, per quella sua magica onda di linee e di rilievi leggerissimi ed aerei, per quello suo scioglimento della materia dagli impacci delle masse e del peso, di poter isolare – dicevo – l’individuo artistico in un clima fantastico e meraviglioso.
Arte modesta che sa talvolta i virtuosismi della tecnica più mossa e raffinata ma necessaria. Ma appunto quel carattere che noi abbiamo detto di complementarità, mai superflua però, concede a questa arte un tono animatissimo, vario e direi quasi polimorfo dal momento che lo stucco può gareggiare e confondersi con la pittura monocromatica – lo stucco Romano e più indietro quello Egiziano con la scultura e l’ornamentazione del Serpotta, con l’architettura – mentre della pittura sa mantenere la dolcezza dei toni e degli sfumati; della scultura la delicatezza del rilievo animata da un’ondulazione di linee più agili e più mosse per la materia sottile ed evanescente che permette all’artista una libertà senza limiti; dell’architettura il ritmico rapporto di linee e di volumi svuotato di ogni idea di peso e fatto quasi palese ascensione ed anelito alla più incorporea e spirituale armonia (onde quell’alleggerimento, o per usare una metafora nuova, quel delicato respiro dell’ornamentazione a stucco sulla massa dignitosa della vòlta o di una parete).
Arte dunque discreta che mette in valore e non si mette in mostra, ma che non meno delle altre nasce da una tal quale commozione e da una freschezza zampillante di ispirazione, che dà al lavoro la spontaneità e la pienezza giovanile delle opere nate quasi d’improvviso e trascritta di getto ad animare superfici ed a coltivare giardini delicati d’ornamentazione.
Non sta a noi rifarne ora la storia che del resto può ritrovarsi su un qualsiasi manuale di storia dell’arte: a noi è importato rilevare i caratteri di questa arte che se non è la più eccellente è tuttavia necessaria e satura di un acrobatico virtuosismo che cela però una vera ispirazione; purtroppo ai giorni nostri non possiamo dire che essa sia coltivata come meriterebbe, quando nel passato artisti anche grandi non disdegnarono di cimentarvisi: nelle moderne vampate del teorema della essenzialità l’ornamento superfluo è stato in genere eliminato; ma è un po’ troppo facile risolvere un problema eliminandone i vari elementi senza chiedere invece quale sia invece il rapporto moderno di essi.
A proposito dunque vengono i Littoriali, quei Littoriali che vogliono essere un confronto nazionale, una immissione continua di forze nel campo vastissimo della produzione e anche un rinverdimento non archeologico, ma vivo e fremente di tradizioni e tecniche nostre.
In alto: Piero Portaluppi (su disegno di), soffitto a stucco a tema zodiacale (particolare), 1932-35, Milano, Villa Necchi Campiglio (Sailko/Wikimedia). Sotto: riproduzione della pagina 3 di "Architrave", edizione speciale per i Littoriali maschili del lavoro, 17 aprile 1942 (www.archiviostorico.unibo.it).