di Giorgio Vasari
Francesco d'Angelo detto il Cecca (1446-1488) è, nel '400 fiorentino, una figura poco nota, più un magister medievale che una personalità modellata sui valori umanistici. La sua condizione, a cavallo tra artigianato e arte, lo accomuna a molte figure, spesso anonime, che come lui progettano e realizzano non opere autonome ma "ornamenti", cioè rivestimenti, suppellettili, arredi, finiture architettoniche bi e tridimensionali. Allievo di Francesco di Giovanni detto il Francione (1425 circa-1495), con cui collaborò a più riprese, anche il Cecca si specializzò, come il suo maestro, in ingegneria e carpenteria. Ma non meno importanti furono i suoi impegni come ebanista, mobiliere, realizzatore di scenari e carri allegorici per solennità religiose. Entrato stabilmente al servizio della Repubblica fiorentina, trovò la morte, per un proiettile di balestra, mentre era al seguito di una spedizione militare inviata ad assediare la rocca di Piancaldoli, ai confini con la Romagna. Esperti di edilizia e macchine da guerra a lui paragonabili, come Filippo Brunelleschi, Francesco di Giorgio Martini e Leonardo da Vinci, sapevano distinguersi anche in architettura, pittura e scultura, i campi in cui l'artista rinascimentale, ormai apprezzato in quanto individualità singola e inconfondibile, poteva aspirare ai riconoscimenti più alti. La carriera del Cecca si svolse invece per intero nelle botteghe e nei cantieri, in simbiosi con le maestranze addette alla muratura, alla falegnameria, ai costumi, alla scenotecnica. Il profilo biografico che qui pubblichiamo fu scritto da Giorgio Vasari oltre mezzo secolo dopo la prematura scomparsa del Cecca. Esso descrive con dovizia di particolari alcuni dei perduti apparati scenici curati dal Cecca a Firenze, con un ricco dispiegamento di materiali e mezzi atti a sostenere i figuranti e a simulare il movimento delle sagome, la vaporosità delle nubi, il filtrare della luce. Vedi G. Vasari, Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architetti, Giunti, Firenze 1568, parte II, Vita del Cecca ingegnere fiorentino, pp. 440-447. L'edizione moderna consultata è: G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Newton Compton, Roma 1991, pp. 465-469. Sul Cecca vedi anche la voce a firma di F. Quinterio, Francesco d'Angelo, detto il Cecca o la Cecca, in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. 49, Roma 1997.
Se la necessità non avesse sforzati gl’uomini ad essere ingegnosi per la utilità e comodo proprio, non sarebbe l’architettura divenuta sì eccellente e maravigliosa nelle menti e nelle opere di coloro che per acquistarsi et utile e fama, si sono esercitati in quella con tanto onore, quanto giornalmente si rende loro da chi conosce il buono. Questa necessità primeramente indusse le fabbriche, questa gli ornamenti di quella, questa gli ordini, le statue, i giardini, i bagni e tutte quelle altre comodità suntuose, che ciascuno brama e pochi posseggono; questa nelle menti degl’uomini ha eccitato la gara e le concorrenzie non solamente degli edifizii, ma delle comodità di quegli; per il che sono stati forzati gl’artefici a divenire industriosi negli ordini de’ tirari, nelle machine da guerra, negli edifizii da acque et in tutte quelle avvertenzie et accorgimenti, che sotto nome di ingegni e di architetture, disordinando gli adversarii et accomodando gli amici, fanno e bello comodo il mondo. E qualunche sopra gli altri ha saputo fare queste cose, oltra lo essere uscito d’ogni sua noia, sommamente è stato lodato e pregiato da tutti gl’altri; come al tempo de’ padri nostri fu il Cecca fiorentino al quale ne’ dì suoi vennero in mano molte cose e molto onorate; et in quelle si portò egli tanto bene nel servigio della patria sua, operando con risparmio e sodisfazzione e grazia de’ suoi cittadini, che le ingegnose et industriose fatiche sue lo hanno fatto famoso e chiaro fra gl’altri egregi e lodati artefici.
Dicesi che il Cecca fu nella sua giovinezza legnaiuolo bonissimo; e perchè egli aveva applicato tutto lo intento suo a cercare di sapere le difficultà degli ingegni: come si può condurre ne’ campi de’ soldati machine da muraglie, scale da salire nelle città, arieti da rompere le mura, difese da riparare i soldati per combattere, et ogni cosa che nuocere potesse agli inimici, e quelle che a’ suoi amici potessero giovar, essendo egli persona di grandissima utilità alla patria sua, meritò che la Signoria di Fiorenza gli desse provisione continua. Per il che, quando non si combatteva, andava per il dominio rivedendo le fortezze e le mura delle città e castelli ch’erano debili, et a quelli dava il modo de’ ripari e d’ogni altra cosa che bisognava. Dicesi che le nuvole che andavano in Fiorenza, per la festa di S. Giovanni a processione, cosa certo ingegnosissima e bella, furono invenzione del Cecca, il quale, allora che la città usava di fare assai feste, era molto in simili cose adoperato. E nel vero, come che oggi si siano cotali feste e rappresentazioni quasi del tutto dismesse, erano spettacoli molto belli, e se ne faceva non pure nelle Compagnie o vero Fraternite, ma ancora nelle case private de’ gentiluomini, i quali usavano di far certe brigate e compagnie, et a certi tempi trovarsi allegramente insieme; e fra essi sempre erano molti artefici galantuomini che servivano, oltre all’essere capricciosi e piacevoli, a far gl’apparati di cotali feste. Ma fra l’altre, quattro solennissime e publiche si facevano quasi ogni anno, cioè una per ciascun quartiere, eccetto S. Giovanni per la festa del quale si faceva una solennissima processione, come si dirà: Santa Maria Novella quella di Santo Ignazio, Santa Croce quella di S. Bartolomeo detto S. Baccio, S. Spirito quella dello Spirito Santo et il Carmine quella dell’Ascensione del Signore e quella dell’Assunzione di Nostra Donna. La quale festa dell’Ascensione, perchè dell’altre d’importanza si è ragionato o si ragionerà, era bellissima; conciò fusse che Cristo era levato di sopra un monte benissimo fatto di legname, da una nuvola piena d’Angeli e portato in un cielo, lasciando gl’Apostoli in sul monte, tanto ben fatto che era una maraviglia, e massimamente essendo alquanto maggiore il detto cielo che quello di S. Felice in Piazza, ma quasi con i medesimi ingegni. E perchè la detta chiesa del Carmine, dove questa rappresentazione si faceva, è più larga assai e più alta che quella di S. Felice, oltre quella parte che riceveva il Cristo, si accommodava alcuna volta, secondo che pareva, un altro cielo sopra la tribuna maggiore, nel quale alcune ruote grandi fatte a guisa d’arcolai, che dal centro alla superficie movevano con bellissimo ordine dieci giri per i dieci cieli, erano tutti pieni di lumicini rapresentanti le stelle, accommodati in lucernine di rame, con una schiodatura che sempre che la ruota girava, restavano in piombo, nella maniera che certe lanterne fanno, che oggi si usano comunemente da ognuno. Di questo cielo, che era veramente cosa bellissima, uscivano due canapi grossi tirati dal ponte o vero tramezzo che è in detta chiesa, sopra il quale si faceva la festa; ai quali erano infunate per ciascun capo d’una braca, come si dice, due piccole taglie di bronzo, che reggevano un ferro ritto nella base d’un piano, sopra il quale stavano due angeli legati nella cintola, che, ritti, venivano contrapesati da un piombo che avevano sotto i piedi et un altro che era nella basa del piano di sotto dove posavano, il quale anco gli faceva venire parimente uniti. Et il tutto era coperto da molta e ben acconcia bambagia che faceva nuvola, piena di cherubini, serafini et altri angeli così fatti di diversi colori e molto bene accomodati. Questi, allentandosi un canapetto di sopra nel cielo, venivano giù per i due maggiori in sul detto tramezzo dove si recitava la festa, et annunziato a Cristo il suo dover salir in cielo, o fatto altro uffizio, perchè il ferro dov’erano legati in cintola era fermo nel piano dove posavan i piedi, e’ si giravan intorno intorno; quando erano usciti e quando ritornavano, potevan far reverenza e voltarsi secondo che bisognava, onde nel tornar in su si voltava verso il cielo, e dopo erano per simile modo ritirati in alto. Questi ingegni dunque e queste invenzioni, si dice che furono del Cecca; perchè se bene molto prima Filippo Bruneleschi n’aveva fatto de’ così fatti, vi furono nondimeno con molto giudizio molte cose aggiunte dal Cecca. E da queste poi venne in pensiero al medesimo di fare le nuvole che andavano per la città a processione ogni anno alla vigilia di S. Giovanni; e l’altre cose che bellissime si facevano. E ciò era cura di costui per essere, come si è detto, persona che serviva il publico.
Ora dunque non sarà se non bene con questa occasione dire alcune cose che in detta festa e processione si facevano, acciò ne passi ai posteri memoria, essendosi oggi per la maggior parte dismesse. Primieramente adunque la piazza di S. Giovanni si copriva tutta di tele azzurre, piene di gigli grandi fatti di tela gialla e cucitivi sopra; e nel mezzo erano, in altuni tondi pur di tela e grandi braccia dieci, l’arme del popolo e Comune di Firenze, quella de’ capitani di Parte Guelfa et altre; et intorno intorno negl’estremi del detto cielo, che tutta la piazza come grandissima sia ricopriva, pendevano drappelloni pur di tela, dipinti di varie imprese, d’armi di magistrati e d’arti, e di molti leoni, che sono una dell’insegne della città; questo cielo, o vero coperta così fatta, era alto da terra circa venti braccia, posava sopra gagliardissimi canapi attaccati a molti ferri che ancor si veggiono intorno al tempio di S. Giovanni, nella facciata di S. Maria del Fiore e nelle case che sono per tutto intorno alla detta piazza, e fra l’un canapo e l’altro erano funi che similmente sostenevano quel cielo, che per tutto era in modo armato, e particolarmente in sugl’estremi, di canapi, di funi e di soppanni e fortezze di tele doppie e canevacci, che non è possibile imaginarsi meglio; e, che è più, era in modo e con tanta diligenza accomodata ogni cosa che, ancora che molto fussero dal vento che in quel luogo può assai d’ogni tempo come sa ognuno gonfiate e mosse le vele, non però potevano essere sollevate né sconce in modo nessuno. Erano queste tende di cinque pezzi, perché meglio si potessino maneggiare, ma poste su, tutte si univano isieme e legavano e cuscivano di maniera che pareva un pezzo solo. Tre pezzi coprivano la piazza e lo spazio che è fra S. Giovanni e S. Maria del Fiore; e quello del mezzo aveva, a dirittura delle porte principali, detti tondi con l’arme del comune. E gl’altri due pezzi coprivano dalle bande, uno di verso la Misericordia e l’altro di verso la canonica et Opera di S. Giovanni. Le nuvole poi, che di varie sorti si facevano dalle Compagnie con diverse invenzioni, si facevano generalmente a questo modo: si faceva un telaio quadro di tavole, alto braccia due in circa, che in su le teste aveva quattro gagliardi piedi fatti a uso di trespoli da tavola et incatenati a guisa di travaglio; sopra questo telaio erano in croce due tavole larghe braccia uno, che in mezzo avevano una buca di mezzo braccio, nella quale era uno stile alto sopra cui si accomodava una mandorla, dentro la quale, che era tutta coperta di bambagia, di cherubini e di lumi et altri ornamenti, era in un ferro al traverso, posta a sedere o ritta, secondo che altri voleva, una persona che rappresentava quel Santo, il quale principalmente da quella compagnia, come proprio avvocato e protettore si onorava; o vero un Cristo, una Madonna, un S. Giovanni o altro; i panni della quale figura coprivano il ferro in modo che non si vedeva. A questo medesimo stile erano accommodati ferri, che girando più bassi e sotto la mandorla, facevano quattro o più o meno rami, simili a quelli d’un albero, che negl’estremi con simili ferri aveva per ciascuno un piccolo fanciullo vestito da Angiolo. E questi, secondo che volevano, giravano in sul ferro dove posavano i piedi, che era gangherato. E di così fatti rami si facevano talvolta due o tre ordini d’Angeli o di Santi; secondo che quello era che si aveva a rappresentare. E tutta questa machina e lo stile et i ferri che tallora faceva un giglio, tallora un albero e spesso una nuvola o altra cosa simile, si copriva di bambagia e, come si è detto, di cherubini, serafini, stelle d’oro et altri cotali ornamenti. E dentro erano facchini o villani, che la portavano sopra le spalle, i quali si mettevano intorno intorno a quella tavola, che noi abbiam chiamato telaio, nella quale erano confitti, sotto dove il peso posava sopra le spalle loro, guanciali di cuoio, pieni o di piuma o di bambagia o d’altra cosa simile, che acconsentisse e fusse morbida. E tutti gl’ingegni e le salite et altre cose erano coperte come si è detto di sopra con bambagia, che faceva bel vedere, e si chiamavano tutte queste machine, nuvole; dietro venivano loro cavalcate d’uomini e di sergenti a piedi in varie sorti, secondo la storia che si rappresentava, nella maniera che oggi vanno dietro a’ carri o altro che si faccia, in cambio delle dette nuvole; della maniera delle quali ne ho, nel nostro libro de’ disegni, alcune di mano del Cecca molto ben fatte et ingegnose veramente e piene di belle considerazioni. Con l’invenzione del medesimo si facevano alcuni Santi, che andavano o erano portati a processione, o morti o in varii modi tormentati: alcuni parevano passati da una lancia o da una spada; altri aveva un pugnale nella gola et altri altre cose simili per la persona. Del qual modo di fare, perchè oggi è notissimo, che si fa con spada, lancia o pugnale rotto, che con un cerchietto di ferro sia da ciascuna parte tenuto stretto e di riscontro, levatone a misura quella parte che ha da parere fitta nella persona del ferito, non ne dirò altro. Basta che per lo più si truova che furono invenzione del Cecca.
I giganti similmente, che in detta festa andavano attorno, si facevano a questo modo: alcuni molto pratichi nell’andar in sui trampoli, o come si dice altrove in sulle zanche, ne facevano fare di quelli che erano alti cinque e sei braccia da terra, e fasciategli et acconcigli in modo, con maschere grandi et altri abbigliamenti di panni o d’arme finte che avevano membra e capo di gigante vi montavano sopra, e destramente caminando, parevano veramente giganti; avendo nondimeno inanzi uno che sosteneva una picca, sopra la quale con una mano si appoggiava esso gigante; ma per sì fatta guisa però che pareva che quella picca fusse una sua arme, cioè o mazza o lancia o un gran battaglio, come quello che Morgante usava, secondo i poeti romanzi, di portare. E sì come i giganti, così si facevano anche delle gigantesse, che certamente facevano un bello e maraviglioso vedere. I spiritelli poi da questi erano differenti, perchè senza avere altra che la propria forma, andavano in sui detti trampoli alti cinque e sei braccia, in modo che parevano proprio spiriti. E questi anco avevano inanzi uno che con una picca gl’aiutava. Si racconta nondimeno che alcuni eziandio senza punto appoggiarsi a cosa veruna, in tanta altezza caminavano benissimo; e chi ha pratica de’ cervelli fiorentini, so che di questo non si farà alcuna maraviglia; perchè, lasciamo stare quello da Montughi di Firenze, che ha trapassati nel salir e giocolare sul canapo quanti insino a ora ne sono stati; chi ha conosciuto uno che si chiamava Ruvidino, il quale morì non sono anco dieci anni, sa che il salire ogni altezza sopra un canapo o fune, il saltar dalle mura di Firenze in terra et andare in su’ trampoli molto più alti che quelli detti di sopra, gli era così agevole come a ciascuno caminare per lo piano. Laonde non è maraviglia se gl’uomini di que’ tempi, che in cotali cose o per prezo o per altro si esercitavano, facevano quelle che si sono dette di sopra, o maggiori cose.
Non parlerò d’alcuni ceri che si dipignevano in varie fantasie, ma goffi tanto che hanno dato il nome ai dipintori plebei, onde si dice alle cattive pitture “fantocci da ceri”, perchè non mette conto; dirò bene che al tempo del Cecca questi furono in gran parte dismessi et in vece loro fatti i carri che simili ai triomfali sono oggi in uso. Il primo de’ quali fu il carro della moneta, il quale fu condotto a quella perfezzione che oggi si vede, quando ogni anno per detta festa è mandato fuori dai maestri e signori di Zecca, con un S. Giovanni in cima e molti altri Santi et Angeli da basso et intorno, rappresentati da persone vive. Fu deliberato non è molto che se ne facesse, per ciascun castello che offerisce cero, uno, e ne furono fatti insino in dieci per onorare detta festa magnificamente, ma non si seguitò per gl’accidenti che poco poi sopravennero. Quel primo dunque della Zecca fu, per ordine del Cecca, fatto da Domenico, Marco e Giuliano del Tasso, che allora erano de’ primi maestri di legname che in Fiorenza lavorassero di quadro e d’intaglio; et in esso sono da esser lodate assai, oltre all’altre cose, le ruote da basso, che si schiodano per potere alle svolte de’ canti girare quello edifizio et accommodarlo di maniera che scrolli meno che sia possibile, e massimamente per rispetto di coloro che di sopra vi stanno legati. Fece il medesimo un edifizio per nettare e racconciare il musaico della tribuna di S. Giovanni, che si girava, alzava, abbassava et accostava, secondo che altri voleva, e con tanta agevolezza che due persone lo potevano maneggiare; la qual cosa diede al Cecca reputazione grandissima.
Costui quando i Fiorentini avevano l’essercito intorno a Piancaldoli, con l’ingegno suo fece sì che i soldati vi entrarono dentro per via di mine, senza colpo di spada. Dopo seguitando più oltre il medesimo esercito a certe altre castella, come volle la mala sorte, volendo egli misurare alcune altezze in un luogo difficile, fu occiso; perciò che avendo messo il capo fuor del muro per mandar un filo abbasso, un prete, che era fra gl’avversarii, i quali più temevano l’ingegno del Cecca che le forze di tutto il campo, scaricatoli una balestra a panca, gli conficcò di sorte un verettone nella testa che il poverello di subito se ne morì. Dolse molto a tutto l’essercito et ai suoi cittadini il danno e la perdita del Cecca. Ma non vi essendo rimedio alcuno, ne lo rimandarono in cassa a Fiorenza, dove dalle sorelle gli fu data onorata sepoltura in S. Piero Scheraggio, e sotto il suo ritratto di marmo fu posto lo infrascritto epitaffio:
Fabrum magister Cicca, natus oppidis vel obsidendis, vel tuendis hic iacet.
Vixit annos XXXXI menses VI dies XIIII.
Obiit pro patria telo ictus.
Piae sorores monumentum fecerunt MCCCCLXXXXVIIII.
Homepage: Ricostruzione di apparato effimero fiorentino di età medicea raffigurante un coro angelico (particolare del modellino ligneo realizzato nel 1975 da Ludovico Zorzi e Cesare Lisi), Pratolino, Villa Demidoff (www.cittametropolitana.fi.it).
Sotto: riproduzione delle pagine 440-447 dell'opera di Giorgio Vasari "Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architetti", Giunti, Firenze 1568, parte II (www.archive.org).