di Enrico Maria Davoli
Mona Lisa Tina (Francavilla Fontana 1977) è tra le figure più rappresentative nell'ambito della performance oggi in Italia. Arteterapeuta accreditata presso importanti realtà educative, museali e sanitarie, vive e lavora a Bologna, dove ha frequentato l'Accademia di Belle Arti. Sin dalle prime prove, il suo approccio alla performance coniuga elementi di ritualità universale, semplice e riconoscibile, con allestimenti rarefatti ed eleganti. L'uso di un'ampia gamma di risorse installative, tecnologiche e multimediali, sia durante l'azione performativa in tempo reale, sia in sede di postproduzione fotografica e videografica, dà al suo lavoro forte densità plastica, cromatica ed emotiva. Gesti archetipici come respirare, camminare a piedi nudi, sussurrare, declamare, abbracciare, accarezzare, intonare una nenia, costruiscono le condizioni di un climax ineluttabile. I partecipanti alla performance diventano i protagonisti di una possibile, quotidiana redenzione. Mona Lisa Tina progetta con cura ogni dettaglio delle sue performances, costruendo intorno a sé un'atmosfera di regalità, un afflato, che fanno del suo lavoro una vera e propria architettura emozionale, capace di incorniciare il tempo e lo spazio in cui si svolge. Le abbiamo perciò rivolto una serie di domande intorno ai segni di riconoscimento, insieme estetici ed etici, presenti in tutta la sua ricerca artistica. Le immagini che corredano questa intervista provengono tutte dal sito web dell'artista, consultabile al link www.monalisatina.it
Forse anche a causa delle immagini a bassa definizione, in bianco e nero, di pionieri come Vito Acconci, Carolee Schneemann, la coppia Abramović-Ulay, si tende ad associare la Performance (e la confinante Body Art) a una serie di procedure artistiche povere, se non proprio disadorne. Ma il panorama è molto mutato rispetto a qualche decennio fa. Con quali ragioni, interne ed esterne, spieghi questa evoluzione?
È esattamente come affermi. Nel corso del tempo la pratica performativa si è andata modificando, grazie all’integrazione di strumenti e dispositivi tecnologici audio/video, propri del nostro tempo. Grazie a essi l’artista ha potenziato e superato i limiti del Corpo, e il rischio di dover soccombere alla propria caducità fisica, rendendo eterne le azioni performative grazie alla riproducibilità digitale. Riguardo ai cambiamenti esterni ai setting performativi, ritengo che essi dipendano dal processo di evoluzione culturale e scientifica, in senso ampio e diversificato, in atto ovunque. I performers hanno sentito l’esigenza di esprimersi con mezzi più sofisticati e contemporanei, oltrepassando i confini geografici dei luoghi d’origine. I motivi interni di questi cambiamenti estetici, invece, sono legati in buona parte alla biografia dell’artista, agli stimoli culturali ricevuti, agli incontri/scontri professionali con le proprie figure di riferimento, all’età anagrafica e, più in generale, all’urgenza espressiva e di condivisione della propria Arte.
I materiali e gli oggetti che, nel tempo, hai impiegato nelle tue performances, offrono un quadro che si attaglia benissimo alla nozione originaria e più concreta di ornamentum, così come la leggiamo in un dizionario di latino: in primo luogo “apparato”, “equipaggiamento, “armatura”, “bardatura”; in secondo luogo le nozioni, oggi più consuete, di “abbellimento” e “ornamento”. Come valuti questo dato?
Innanzitutto, posso rispondere che gli oggetti che utilizzo acquisiscono un significato e un ruolo ben precisi a seconda del progetto di riferimento; certamente i termini “apparato” e “armatura” possono essere concettualmente collegati ad essi. Inoltre, anche il termine “ornamento”, inteso come integrazione di uno o più oggetti estetici nella performance, con finalità che esulano dal mero abbellimento, mi pare appropriato. Nella mia prospettiva di artista visiva, e non essendo né una semiologa né una linguista, esprimo una valutazione che – ne sono cosciente – può essere opinabile.
Volendo tentare un inventario degli “ornamenti” con cui realizzi le tue performances, una prima, rilevante modalità di cui ti sei avvalsa in passato è uno strato di colore applicato direttamente sulla pelle, ad esempio la brunitura utilizzata in Obscuratio (2008) e Human (2009). Era una cancellazione, una metamorfosi, una sublimazione?
Nella storia dell’arte sono tante le simbologie che vengono attribuite al nero, inteso come acromia e assenza di luce. In alcune delle mie precedenti performances – mi riferisco in modo particolare a Obscuratio e a Human – ho utilizzato un pigmento nero opaco per coprire completamente tutta la superficie del mio Corpo, con lo scopo di occultare e confondere, anche solo momentaneamente per la durata dell’azione, la mia identità di genere. Il nero, dunque, assume per me più di un significato. In primo luogo, quello che riguarda un particolare stato emotivo di introspezione e di travaglio psichico dell’artista, prima del raggiungimento di una rinnovata consapevolezza che segue l’azione costruttiva dell’opera d’arte. Come enunciato nei vari trattati dell’alchimia antica, il processo di trasformazione della materia è suddiviso in tre stadi principali che caratterizzano la trasmutazione cromatica dei metalli, fino al raggiungimento del suo apice: l’Oro. Questa trasformazione non riguarda solo lo stato fisico della materia ma ha anche un significato interiore relativo all’evoluzione spirituale dell’essere. Per esperienza personale, prima, durante e alla conclusione di una performance sono sempre attraversata da differenti stati emotivi di grande intensità, riferibili alle fasi del processo alchemico: la Nigredo, l’Albedo, la Rubedo e, infine, l’oro. La fase della Nigredo può essere considerata come l’istante che precede l’azione in cui il performer è intensamente e introspettivamente concentrato su di sé e sul suo Corpo. La fase dell’Albedo è l’istanza iniziale dell’azione in cui l’artista, pur non esprimendosi con le parole ma attraverso lo sguardo e la sua presenza fisica, instaura una dimensione di empatia e fiducia con il pubblico che assiste. La fase della Rubedo si riferisce al pieno dello svolgimento dell’azione, in cui performer e presenti prendono parte all’opera essendone emotivamente e totalmente coinvolti. La fase dell’Oro rappresenta l’esperienza performativa conclusa dopo una reciprocità di scambi e interazioni che riguarda tutti.
Un’altra modalità che hai sperimentato è quella degli involucri simili a bozzoli o nidi – da Into the Core (2011) a Fragments (2012) a Anthozoa (2013) – che avvolgono il tuo corpo, nascondendolo e rivelandolo al tempo stesso. Cosa c’è all’origine di questi involucri?
In Into the Core, l’involucro rappresentava una sorta di tana, di ventre vegetale in corda che mi accoglieva e proteggeva. In Fragments, le estensioni rivestite in raso nero di cui lentamente mi vestivo, trasformavano e cambiavano letteralmente il mio aspetto. In Anthozoa, invece, indossavo una struttura biomorfa di velluto rosso fin dal principio dell’azione che dalla testa si estendeva a tutto il Corpo. La struttura sottolineava il mio desiderio di cambiamento interiore, non solo di tipo estetico ovviamente, dove l’artefatto dell’involucro compenetrandomi, diventava tutt’uno con me. Negli anni in cui ho realizzato questi progetti e per molto tempo nei miei lavori – ne sono una dimostrazione proprio queste performances – ho proposto il mio Corpo come asessuato, mutante e contaminato proprio in contrapposizione agli standard di bellezza contemporanea. Utilizzando protesi, allestimenti di luce, strumenti chirurgici e accessori di sale operatorie, rivestititi o trattati nella loro “natura” come fossero oggetti preziosi, desideravo enfatizzare l’avvento delle nuove tecnologie e dei nuovi canoni estetici attraverso il linguaggio dell’Arte, che per me rappresenta, in questo senso, l’unica modalità possibile in cui il Corpo e la chirurgia, anche quella estetica, dialogano.
Un terzo aspetto in continua evoluzione è l’abito vero e proprio, col relativo impatto cromatico, che può essere squillante ( Io non ho vergogna, 2014, Georitmie, 2021), candido ( L’albero delle bugie, 2017, Carillon, 2022), oscuramente neutro ( Di ogni buio, di ogni luce, 2018) e via dicendo. L’impressione è quella di un mood personale che diventa snodo, fonte di energia. Sei d’accordo?
Sono pienamente d’accordo con te. Attribuisco ai colori degli indumenti che indosso significati specifici a seconda della poetica di ogni singolo lavoro. A un’analisi più approfondita, le tonalità di rosso, nero e bianco riflettono simbolicamente sempre un aspetto, un frammento delle mie esperienze di vita. Esperienze che desidero esporre e condividere con i fruitori, al tempo stesso avviando e amplificando un processo trasformativo, psichico ed emotivo, nell’azione performativa stessa o nel singolo progetto fotografico.
Un discorso a parte andrebbe fatto per i vincoli e i fardelli che, in maniera crescente negli ultimi lavori, scandiscono i tuoi atti performativi: dai campanacci che ti trascini ne L’albero delle bugie, al collare di Di ogni buio, di ogni luce, al busto-corazza, al collare e allo strascico di (Non) posso fare a meno di me (2020), al cammino lastricato di frammenti di specchi e alla corona sul capo di Tra Te e me (2022). La dimensione solenne, sacerdotale, e quella della reclusione e dell’impedimento fisico spesso coincidono, è vero, ma è tutto qui o c’è dell’altro?
I quattro progetti che citi, ma direi in linea generale quasi tutti, si compongono sempre di due “atti” interdipendenti tra di loro, in cui “reclusione” e “impedimento” fisico sono concettualmente presenti nella misura in cui è possibile avviare un processo simbolico di abreazione. Questo processo, che avverrà soltanto nella seconda parte dell’azione, si compie attraverso il coinvolgimento del pubblico. È questa la parte più importante dell’opera: nell’hic et nunc della performance le dimensioni più profonde e intime dei partecipanti vengono stimolate in modo fluido e autentico, attivando così le memorie incarnate di ciascuno. In questo rituale collettivo si avvia una dinamica emotiva di spostamento energetico psicofisico, che dall’artista si direziona verso lo spettatore e dallo spettatore verso l’esterno.
La ritualità, la luce, il suono, la vocalità e la nozione del sacro sono da sempre in stretto rapporto. Come gestisci, in termini concretamente progettuali, tale concatenazione?
Tutto inizia da un’immagine mentale, quasi una visione che emerge in sogno oppure in un momento di quotidiana routine. Successivamente tento di trasformare l’immagine visiva in un testo scritto che descriva la poetica e la dimensione più squisitamente tecnica del progetto generale. Infine ricerco concretamente i materiali e metto in atto il confronto diretto con alcuni specifici professionisti del settore tecnico – del suono, delle luci, del video – che mi permetteranno di studiare in ogni dettaglio le modalità di realizzazione del lavoro.
In una delle tue performances più recenti, Tra Te e me, compare un’opera pittorica di tua realizzazione, una pala d’altare ricoperta di grafemi infantili. Al di là della funzione specifica di questo elemento nell’economia della performance, colpisce l’effetto di duplicazione, di “opera nell’opera”: lo spettatore guarda te, che guardi a tua volta la pala. In passato avevi già utilizzato immagini fotografiche e cinematografiche, ma qui il nesso diventa strettissimo. Da performer convinta delle scelte fatte fin qui, qual è il tuo rapporto odierno con l’immagine pittorica, “altra” da te?
A dire il vero è una dimensione che mi affascina molto. Ammiro i colleghi che si avvalgono esclusivamente di questo mezzo espressivo. Trovo sia molto difficile oggi “fare pittura” in modo singolare e genuino, perché il rischio è quello di cadere nel citazionismo e nell’anacronismo più banali.
Riprendendo le questioni generali sollevate nelle prime due domande: esiste a tuo parere una dimensione di “decoro” (in senso lato) che, in qualche modo, interseca anche le scelte espressive degli artisti della performance?
L’unico “decoro” che io riconosca è quello dovuto al sentimento rigoroso della propria dignità. Sentimento che auspico sia sempre vivo e presente anche nei miei colleghi performers, per farne tesoro sia nei loro interventi artistici, sia nelle relazioni interpersonali.
Homepage: Mona Lisa Tina, Di ogni buio, di ogni luce (particolare dell'installazione a pavimento), 2018, performance e installazione, nella versione realizzata per il progetto sperimentale MACRO Asilo, Roma, MACRO (photo credits Vanis Dondi).
Sotto: Mona Lisa Tina, (Non) posso fare a meno di me, 2020, performance e installazione, nella versione realizzata per il Ceramic Performance Festival, Faenza, Museo Zauli (photo credits Vanis Dondi).