L’arte della decorazione ha un rapporto particolare, si direbbe quasi invariante nel tempo, con le persone che la fanno e con le cose di cui è fatta. I suoi autori non fanno notizia, non ci si chiede quale sia il loro pensiero. Non perché ne siano privi, ma perché sono depositari di un patrimonio di idee collettivo, che li trascende. I suoi soggetti – specie botaniche e zoologiche, creature metamorfiche, figure geometriche – non assurgono alla statura di protagonisti ma si moltiplicano ritmicamente nello spazio diventando “motivi”. Le sue opere non hanno titoli ma nomi da campionario: fregio, cornice, zoccolo, capitello eccetera. Si direbbe che le categorie di pensiero che hanno via via modificato il ruolo e la percezione sociale delle arti non abbiano avuto presa sulla decorazione, scivolando senza lasciare traccia.
Si deve probabilmente anche a questo la condanna emessa dal secolo XX nei confronti delle pratiche decorative. Ad una cultura novecentesca devota ai miti del progresso, della tecnica e dell’ideologia, la decorazione dev’essere apparsa incapace di rinnegare le proprie origini, troppo primitiva per essere redenta ed entrare in lizza in un dibattito critico sempre più compulsivo ed autoreferenziale. Della decorazione ci si accorge forse di più quando non c’è, per il vuoto che lascia. Oggi che i miti del progresso, della tecnica e dell’ideologia sono in crisi e non riescono a promettere rivoluzioni e rigenerazioni ma solo marce forzate, le persone e le cose della decorazione tornano di attualità. E tornano a parlarci silenziosamente di arte.
In alto: William Morris, Carta da parati con foglie d'acanto, 1875.