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La decorazione e il suo linguaggio

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Paolo Portoghesi (Roma 1931) è tra i maggiori architetti italiani in attività. Molte le sue realizzazioni in Italia e all'estero: dalle chiese (Sacra Famiglia, Salerno, 1969-74; Santa Maria della Pace, Terni, 1983-93) alle moschee (Roma, 1975-89; Strasburgo, 2000-2012), passando per gli edifici residenziali e la risistemazione di spazi pubblici (Piazza San Silvestro, Roma, 2012). Come docente universitario e storico dell'architettura ha pubblicato saggi sull'età rinascimentale, barocca e liberty, tra cui il fondamentale Roma barocca (1966). E' stato direttore della sezione architettura (1979-82) e presidente (1983-93) della Biennale di Venezia. Dal punto di vista teorico è tra i maggiori animatori del dibattito che, negli anni settanta-ottanta del '900, ha visto nascere la nozione di “postmoderno”. Il testo che qui presentiamo illumina un aspetto importante del suo pensiero: l'interesse per la decorazione intesa, contro e oltre i tabù razionalisti, come elemento irrinunciabile del linguaggio architettonico. Ringraziamo il Gruppo 24 ORE per averci gentilmente autorizzato a ripubblicare l'articolo, uscito il 22 luglio 2008 sul proprio portale di architettura e design Archinfo [www.archinfo.it/editoriale-la-decorazione-e-il-suo-linguaggio/0,1254,53_ART-198189,00.html]. Le immagini che corredano il testo sono il frutto di una scelta redazionale.

“La ricca e precisa lingua degli elleni adopera la medesima parola per designare sia l’ornamento con cui decoriamo noi stessi e gli oggetti a cui teniamo, sia la massima conformità alle leggi della natura e all’ordine cosmico”. Gottfried Semper inizia così una conferenza in cui rivolgendosi con ironia alle signore presenti, le definiva: “maestre fin dall’infanzia per dono di natura” nell’arte di rendere più significativa e attraente la propria immagine aggiungendo ad essa degli ornamenti.

La tesi di Semper, esposta in modo analitico in Der Stil, è infatti che all’origine della decorazione architettonica va considerata la cosmesi, operata attraverso il tatuaggio, i vestiti e gli oggetti pensati per abbellire le diverse parti del nostro corpo.

Johannes Ganz, Ritratto di Gottfried Semper, 1870, fotografia montata su cartoncino, Zurigo, ETH BIbliotek (Wikimedia).

La derivazione del repertorio decorativo dell’architettura dal mondo della natura e l’influenza esercitata dalle diverse tecniche utilizzate dagli uomini primitivi sono due capisaldi della teoria semperiana. La natura per lui è die grosse Urbildnerin, la grande formatrice-ispiratrice dell’arte, l’artista “non può creare in altro modo la forma che secondo ciò che la natura gli insegna”; ma ciò che ispira e condiziona la produzione artistica non è tanto l’imitazione “naturalistica” quanto la capacità di intendere la natura nelle sue leggi e ad esse docilmente sottomettersi.

Vitruvio aveva parlato nel suo trattato di homines imitabili docilique natura 〈1〉 e Semper precisa: “Come la natura ha una sua storia evolutiva, al cui interno i vecchi motivi rispuntano in ogni nuova creazione, allo stesso modo, alla base dell’arte, vi sono solamente poche forme regolari e tipi provenienti da una remotissima tradizione che, in un continuo riapparire, presentano tuttavia una infinita varietà e hanno, come quei tipi di natura, una loro storia”. L’analogia arte-natura quindi non è il risultato di un rapporto passivo ma una conseguenza della naturalità della mente umana che obbedisce a leggi comuni alla natura stessa e così si inserisce nel processo della creazione e dell’evoluzione. Per Semper, permeato di cultura classica, il riferimento alle poche Grundformen (forme fondamentali) è la garanzia di un modo di creare non basato sull’originalità individualistica ma su una ripetizione creativa che è nello stesso tempo ossequio verso un modello e suo perfezionamento: “Il nuovo è così collegato al vecchio senza esserne una copia, e viene liberato dalla dipendenza dagli influssi di una moda vuota”.

Alois Riegl in una foto di anonimo del 1890 circa (Wikimedia).

Il ruolo privilegiato assegnato alle tecniche ai fini di una classificazione esaustiva dei motivi della decorazione architettonica conduce Semper a una complicata e farraginosa esposizione, ma gli consente di chiarire i nessi fondamentali tra i diversi campi (l’arte tessile, la ceramica, la metallurgia, la carpenteria, l’intaglio della pietra e la pittura parietale) nell’ambito dei quali la decorazione si sviluppa in una continua, mirabile interazione. Alois Riegl, che quarant’anni dopo prenderà in esame gli stessi problemi da un punto di vista radicalmente opposto, privilegiando l’autonomia della creazione artistica alla luce della “volontà d’arte” (Kunstwollen), non potrà disconoscere l’importanza del suo lavoro analitico e l’ampiezza di visione che lo portava non di rado ad ammettere l’insufficienza delle motivazioni tecniche per spiegare pienamente lo sviluppo dell’arte decorativa. Per Riegl la decorazione è anzitutto libera espressione di intenzioni artistiche che appartengono più che ai singoli individui ai popoli, ai gruppi etnici che si succedono nello scenario della storia. Rispetto a queste intenzioni puramente estetiche le motivazioni simboliche e tecnologiche acquistano quasi il carattere di vincoli che condizionano la libertà di espressione e la continuità di sviluppo di una determinata forma. Anche l’ispirazione naturalistica diventa una limitazione e un vincolo che Riegl considera persino con disprezzo, ironizzando su Vitruvio che aveva introdotto nel suo trattato l’aneddoto di Callimaco.

Capitello corinzio, fine V sec. d.C., Basilica di S. Simeone stilita, Qal’at Sim’an, Siria (foto © Frank Kidner Collection, Dumbarton Oaks).

Del tutto inutile per spiegare lo sviluppo dell’arte greca, l’imitazione delle forme vegetali è per Riegl importante nell’arte egiziana, in quanto dettata da una esigenza simbolica e religiosa. Il loto, infatti, che appare non solo nei motivi decorativi ma anche nelle forme delle colonne, era in Egitto l’emblema del culto solare e, dalla forma dei suoi fiori, Riegl fa derivare anche i motivi del “papiro” e della “palmetta” ottenibili da un processo di stilizzazione con la maggiore accentuazione dei sepali o dei petali. Anche la rosetta sarebbe per Riegl nient’altro che l’interpretazione del fiore di loto osservato dall’alto, quando più evidente appare l’analogia con il sole raggiante e quindi la sua virtualità simbolico-religiosa. L’apporto dell’osservazione della natura viene quindi fortemente ridimensionato rispetto alle tesi di Semper. Il ricorso alla natura per lo storico viennese si limita all’impulso iniziale su cui si innesta il dispiegarsi di un vastissimo repertorio di forme, sviluppato autonomamente in base all’astrazione che combina geometria, ritmo, simboli e metafore in un percorso di allontanamento dalla natura. Particolarmente interessante è la tesi che riguarda la genesi del capitello corinzio: “Tutta quella narrativa”, scrive Riegl, “ha del resto il carattere della favola – una favola, bisogna ammetterlo, che ha molta grazia – per cui non credo che ci sia oggi uno studioso disposto a sostenere seriamente che corrisponda alla realtà… nessuno ch’io sappia, ha osato fino a oggi avanzare il dubbio che il motivo vegetale che costituisce la caratteristica merlettatura del capitello corinzio non sia effettivamente un’imitazione dell’acanthus spinosa, come vuole Vitruvio. Ne deriva la spiacevole conseguenza che vengono del tutto a mancare delle opere cui riferirsi circa la storia dello sviluppo iniziale dell’acanto, che non è certo molto chiara”.

Pur senza affrontare filologicamente il problema, Riegl cerca di dimostrare che il motivo simile alle foglie d’acanto è apparso nell’arte greca non per una diretta imitazione del modello naturale ma per “un mero processo di sviluppo storico-artistico dell’ornato”. “Alle origini”, egli sostiene, “vi era la palmetta di derivazione egizia con le sue foglie raccolte a fascio che si sviluppano radialmente. Lo sviluppo di questo motivo, che ha la sua enunciazione matura nel fregio del capitello ionico dell’Eretteo, avrebbe portato a un modello astratto di foglia in cui gli elementi verticali del fascio non sono staccati come nelle foglie delle palme, ma uniti alla base e divisi a ventaglio verso l’alto. La differenza essenziale rispetto alle foglie dell’acanto spinoso è che in esse, al posto del fascio che raccoglie tutte le venature alla base, si ha una venatura centrale dalla quale nascono le altre come ramificazioni”.

“È strano”, scrive Riegl come morale della sua “favola”, “che finora nessuno sia stato colpito dalla considerazione di quanto sia improbabile che la prima erbaccia incontrata per caso sia stata elevata al rango di motivo artistico”. Abbiamo detto “favola” perché, ancorché motivata dalla teoria del Kunstwollen (che tanta importanza ha avuto nel campo della storia dell’arte), quella di Riegl non era né poteva essere una dimostrazione; era solo un insieme di considerazioni pilotato verso un’affrettata conclusione allo scopo di sgombrare il campo da altre parziali verità ritenute puri e semplici pregiudizi. Ma la disputa sull’acanto non poteva concludersi così semplicisticamente. Per non citare che i contributi più generali, sarebbe stata ripresa da Wörringer, da Gombrich e recentemente da G. Hersey in un suo libretto dedicato ai significati dimenticati delle forme dell’architettura classica.

Fioritura di Brassica Campestris Pekinensis, volgarmente conosciuto come cavolo cinese (Dekochan/Wikimedia).

Nel suo libro del 1908 Wörringer sottoscrive la critica riegliana a Vitruvio e pone l’accento non solo sulla volontà artistica ma anche sul binomio empatia-astrazione al quale è dedicato il suo studio. “Questa superficiale interpretazione”, scrive Wörringer a proposito del De Architectura, “rivela soltanto che già ai tempi di Vitruvio, proprio come oggi, non esisteva più alcuna sensibilità per i reali processi produttivi di un istinto artistico creativo. Ed è con tentativi di spiegazione tanto banali e artificiosi che si vorrebbe penetrare il mistero della creazione artistica greca”. Nonostante la severa reprimenda, Wörringer inconsapevolmente contribuisce alla rivalutazione della favola vitruviana quando afferma che, ispirandosi ai motivi vegetali, l’uomo non trasferisce nell’arte in modo diretto l’immagine dell’organismo vegetale in sé ma la sua “legge strutturale”. Callimaco quindi, osservando le foglie che attorniavano il cesto-urna della “fanciulla di Corinto”, avrebbe potuto benissimo trarne spunto per una rielaborazione concettuale della “erbaccia” incontrata, derivando da essa una legge. E poco importa – aggiungiamo noi – che la legge non corrispondesse meccanicamente alla struttura della foglia di acanto giacché quella legge è presente in altre foglie (per esempio quella del cavolo e in particolare della specie brassica campestris pekinensis) e può essere attribuita anche all’acanto se il suo fogliame viene osservato dall’alto. Non meno interessante è, sotto il profilo della resa scultorea, il confronto con certe qualità di cereus, una pianta grassa di straordinarie qualità plastiche.

Una grande pianta di Cereus Forbesii ‘Spiralis’.

Gombrich, ritornando sull’argomento nel 1979, concede a Vitruvio l’onore delle armi qualificando la sua storia come “commovente” e mette in rilievo con ironia la capziosità del ragionamento riegliano che sceglie con cura gli esempi di capitello corinzio da inserire nel suo argomentare in funzione dell’obiettivo da raggiungere: l’esaltazione cioè della “continuità” di sviluppo dei motivi decorativi e il loro mutare in funzione del gusto. Chi scrive ha cercato in tutti i modi di sottrarre la decorazione architettonica alla celebre damnatio memoriae proposta da Adolf Loos. Come storico, mettendo in rilievo il significato e l’attualità, in quegli anni, all’inizio del novecento, di una condanna che corrispondeva ad esigenze di gusto e a una precisa temperie intellettuale e la necessità di un’amnistia altrettanto attuale già alla fine degli anni trenta del secolo scorso.

Come architetto la pratica della decorazione fa parte fin dall’inizio di un programma che si poneva in continuità con i precedenti tentativi di Ridolfi, di Mollino, di Moretti. Accettando la ragionevolezza della convinzione di Loos, che è impossibile o inutile inventare nuove forme di decorazione, la scelta è sempre stata quella di riferirsi a un repertorio universale di decorazioni “fuori del tempo”, usate nelle società primitive come in quelle più evolute e raffinate.

〈1〉 Homines imitabili docilique natura: uomini atti per natura ad imitare e imparare”. Vitruvio, De Architectura, libro II, 1, 3 [ndr].

In alto: una veduta del DUC Stalingrado, quartiere residenziale costruito nel 1990-95 a Bologna su progetto di Paolo Portoghesi (bbcc.ibc.regione.emilia-romagna.it). Sotto: uno scorcio della Scuola Media Leonardo da Vinci, realizzata nel 1961 a Terni su progetto di Mario Ridolfi.

 

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