Come spiega assai bene Paolo Portoghesi 〈1〉, l’aneddoto vitruviano riguardante le origini del capitello corinzio impressionò vivamente i riformatori della decorazione moderna, che se ne avvalsero per sostenere tesi molto diverse. Gottfried Semper vi vedeva la conferma del suo assunto secondo cui il repertorio decorativo dell’architettura derivava dai materiali e dalle forme reperibili in natura. Alois Riegl, all’opposto, ne sottolineava l’ingenuità, argomentando l’esistenza di una “volontà d’arte” (Kunstwollen) specifica di ogni popolo, di ogni cultura.
In realtà tutte le posizioni – dall’aneddotica antica al positivismo semperiano, dal formalismo riegliano fino alla moderna filologia – non appaiono risolutive se prese una ad una. Al contrario, esse si rafforzano e completano a vicenda non appena le si colloca nelle più ampia cornice della decorazione, intesa come arte che sovrintende al decoro dei manufatti. In tale veste la decorazione è, per eccellenza, arte pubblica. Patrimonio condiviso e non appannaggio personale di questo o quell’artista, essa non opera sotto lo statuto privatistico della poetica, come avviene di norma per la pittura o la scultura, ma sotto quello dell’etica. Tant’è che, nel linguaggio corrente, di un’opera come il Discobolo si dice che “è di Mirone”, mentre di un motivo come l’anthemion (il fregio a palmette e fiori di loto presente nel capitello ionico dell’Eretteo) si dice genericamente che “è greco”.
In altre parole, l’artista-decoratore opera su un patrimonio formale non suo, rispetto al quale non gli è consentito applicare le categorie, così familiari all’artista-pittore e all’artista-scultore, dell’espressione individuale, dell’azione creatrice e trasmutatrice della materia informe. Il decoratore riceve in prestito un repertorio dato, rispetto al quale l’innovazione e l’aggiornamento non possono che procedere lungo i binari dell’invenzione, così come la troviamo teorizzata nell’ambito della retorica antica. Inventio è, nell’oratoria greca e romana, la fase iniziale di stesura del discorso da tenere in pubblico, quella in cui si reperiscono i temi e gli argomenti più opportuni per la sua costruzione e il suo armonico sviluppo 〈2〉. A partire dal Rinascimento, il termine diviene di uso comune anche in campo artistico: nel suo trattato I quattro libri dell’architettura, per esempio, Palladio designa come “invenzioni” le proprie proposte architettoniche.
Come istituto creativo, l’invenzione non si dà senza una libera scelta ideativa da parte dell’artista, a partire però non da una materia indistinta, caotica, ma da un repertorio preesistente. Questa tensione dialettica fra creatività e repertorio, da un lato impone all’artista precisi vincoli espressivi, ma dall’altro fa sì che l’innovazione, proprio perché calata in un contesto noto e condiviso, risulti chiara e leggibile. Usando un’analogia morale potremmo definire l’invenzione come la “virtù” dell’artista pubblico. Tale “virtù” può sfociare in due opposti “vizi”: la pedante ortodossia tradizionalista e l’arbitraria esternazione personale. L’invenzione è, per eccellenza, elemento innovatore, che consente al repertorio di attuarsi in forme sempre diverse pur rimanendo coerente con gli archetipi di fondo su cui si regge il sistema.
Proprio come avviene nell’ambito della retorica, gli archetipi della decorazione agiscono sia come “figure di parola”, cioè come singoli motivi (ad esempio il girale, la palmetta…), sia come “figure di pensiero”, cioè come topiche (ad esempio il fregio, la colonna…). In altri termini, il repertorio offre tutta una serie di figure retoriche che l’artista decoratore di volta in volta sceglie per poi adattarle, nella propria personale chiave poetica, ai singoli casi da affrontare. In tale prospettiva appare emblematica la definizione, ricordata da Vitruvio, che gli ateniesi diedero dello scultore Callimaco, artista di somma eleganza: Katatexitechnos, ossia “colui che liquefà l’arte nelle minuzie”. Per quanto rigorosamente canonizzato sia il repertorio, gli artisti hanno comunque modo di apportarvi il proprio originale contributo, interpretandone e reinventandone gli stilemi di base, e gli appellativi che sin dai tempi più antichi l’opinione pubblica ha loro assegnato sono la fedele registrazione di questo stato di cose.
Mettendo mano al repertorio ricevuto in eredità dal secolo precedente, il modernismo del primo ‘900 operò una vera e propria rivoluzione linguistica. Essa fu la risposta alla domanda di novità avanzata da una società in piena euforia positivista, e con l’introduzione dei motivi floreali ed ondulati agì a livello di “figure di parola”, cioè di stilemi. Le “figure di pensiero” restarono sostanzialmente immutate, cosicché il visionario Gaudì poté comunque recuperare il moresco catalano (il cosiddetto mudejar), il Liberty italiano si spalmò su paradigmi palladiani cosicché i fregi, le cornici e le inquadrature architettoniche rimasero i luoghi topici 〈3〉 in cui il nuovo linguaggio potè impiantarsi e allignare. Ricordiamo questo esempio così vicino nel tempo, perché rappresenta un caso – l’ultimo – di radicale aggiornamento del lessico della Decorazione, pur senza far venir meno meno le strutture linguistiche e sintattiche d’insieme. Un tale evento non potrà più ripetersi nei decenni successivi, quando l’azzeramento degli snodi linguistici farà dissolvere l’intero sistema.
“Decorazione” è oggi un termine di uso comune, ma nessuno sembra conoscerne il reale significato. Questa oscurità genera molti equivoci nell’ambito delle arti “figurative”, altro termine a sua volta oggetto di interpretazioni discutibili. Il tardo modernismo ha sostituito a “figurativo” gli aggettivi “visivo” o “visuale”, tradotti da una lingua dal vocabolario assai scarno, le cui parole coprono spesso aree semantiche eterogenee, quale è l’inglese. La sostituzione di un termine tecnico come “figurativo” con un supposto sinonimo di provenienza straniera, determina un’insanabile oscurità semantica. Negli ultimi cinquant’anni la nostra lingua si è riempita di questi “buchi neri”, che rendono difficile la comunicazione anche tra gli addetti ai lavori. Come definire, oggi, ciò che si produce in Pittura, Scultura e Decorazione?
L’espressione aulica “belle arti”, che fin qui le comprendeva, è da rigettare. Presuppone infatti l’esistenza di arti “inferiori”, “non belle”, quelle che nella vulgata corrente si chiamano “applicate”. La divisione fra arti “belle”, intese come pure, e arti “applicate” in quanto deputate agli oggetti d’uso, nasce dall’identificazione dell’arte con la copia del vero, con la mimesi della natura e dei suoi fenomeni esteriori. Se un pittore dipinge una signorina discinta su un quadro, insegue perciò la sublime idea del “bello”, se invece dipinge la medesima signorina sull’anta di un armadio, “applica” l’arte per abbellire il mobile. Se arte è ritrarre le natiche femminili, può avvenire che queste siano artisticamente “belle” se rappresentate di per sé e “applicate” se collocate su un oggetto d’uso. Se arte è altra cosa, allora tali definizioni cadono.
“Forma” e “figurazione” sono i due termini continuamente evocati da Paul Klee nei saggi di didattica e pedagogia della composizione pittorica, raccolti in volume dopo la sua morte e ripetutamente pubblicati anche in Italia 〈4〉. Tale terminologia, tanto più se abbracciata da un artista come Klee, certo non imputabile di soggezione al verismo, può essere oggi un buon punto da cui ripartire. “Forma” è la legge di aggregazione della materia, mancando la quale si ha l’informe, mentre “figurazione” è il risultato finale, il fine della forma in arte. La parola “figurazione” ha in italiano un vasto spettro semantico, ma tutte le accezioni hanno in comune il designare cose “visibili”, “figure” la cui realizzazione presuppone una logica interna, attiva e costruttiva.
“Arti Figurative”, cioè arti che si occupano della figurazione, ci pare quindi una buona definizione per comprendere sia le tradizionali Belle Arti, sia le loro consorelle più recenti come fotografia, grafica, nuovi media, eccetera. Arti Visive, o peggio ancora visuali, è invece una definizione palesemente inadeguata. Se il comune denominatore è lo stimolo sensoriale, cioè la funzione visiva, anche la letteratura, la poesia, la danza o il teatro, proprio perché visive, dovrebbero rientrarvi, salvo dover poi ribattezzare “Arti Auditive” le loro componenti acustiche, quali la lettura ad alta voce, la recitazione, l’esecuzione strumentale. Come si vede, la definizione delle cose su base sensoriale, cara al materialismo modernista, genera paradossi. Paradossi che una cultura tardoavanguardistica, che del ridicolo ha fatto il proprio cavallo di battaglia, non è nemmeno più in grado di cogliere.
〈1〉 Vedi, su questa stessa rivista, P. Portoghesi, La decorazione e il suo linguaggio, 8 maggio 2013. 〈2〉 Un ottimo testo introduttivo sull'argomento è: M.P. Ellero, Introduzione alla retorica, Firenze, Sansoni, 1997. 〈3〉 «Topica (dal greco topikà < tòpos = luogo), è un sistema di categorie concettuali ed astratte attraverso il quale è possibile scomporre la materia del discorso in nuclei argomentativi distinti, esempi o dati, a cui far ricorso per una determinata dimostrazione; per Aristotele si tratta, quindi, di una teoria di dispositivi logici usati per trovare le premesse (éndoxa) della conclusione a cui si vuole giungere. Nella retorica latina e, prima ancora, nella retorica dei sofisti, la topica è vista pure come una raccolta, quasi un prontuario, di spunti argomentativi, di temi, di consigli teorico-pratici e di procedimenti narrativi generici realizzabili in occasioni anche molto diverse fra loro». M.P. Ellero, Introduzione alla retorica, cit., pagg. 62-63. 〈4〉 Vedi P. Klee, Teoria della forma e della figurazione, Milano, Mimesis, 2009-11, voll. 2. In alto: capitello corinzio (particolare), I sec. a.C., Roma, Pantheon. Sotto: Xilografia originale da A. Palladio, "I quattro libri dell'architettura", 1570, libro I, capitolo XVII.