a cura della redazione
Nelle Accademie di Belle Arti, i repertori ornamentali avevano in passato un loro specifico territorio disciplinare, l'Ornato, il cui apprendimento era trasversale a tutti i linguaggi, sia bidimensionali, come la pittura e la grafica, sia tridimensionali, come la scultura, l'architettura e la scena teatrale. Oggi le cose stanno diversamente. Chi pratica le arti visive incontra i motivi ornamentali in modo spesso casuale, e li riutilizza secondo modalità strettamente individuali, fuori contesto. L'ornamento è qualcosa di simile a un objet trouvé, un'entità in cui spesso ci si imbatte per caso. Ma a differenza dell'objet trouvé di scuola dadaista, qualunque pattern geometrico è carico di risonanze, simbologie e sottintesi radicati in un passato anche molto lontano. Il rischio di cadere nel kitsch, assecondando gli stereotipi presenti in grande quantità sul web, è sempre dietro l'angolo. Per saggiare la sensibilità odierna nei confronti di questi temi, abbiamo rivolto alcune domande a due studenti dei corsi di pittura dell'Accademia di Brera, Simone Bertuzzi (Asola 2003) e Davide Infantino (Milano 1985), entrambi impegnati in una ricerca sulle forme minime, modulabili e ripetibili in uno spazio pittorico sempre pronto a sdoppiarsi in spazio reale. Le loro opere incrociano, attraverso ritrovati tecnici molto efficaci, gli aspetti strutturali e utilitari, prima ancora che espressivi, del decoro, riflettendone la costante presenza nell'ambiente umano.
Quali sono stati i tuoi primi contatti significativi col mondo dell’arte?
SB Sono cresciuto in un contesto particolare, circondato da figure parentali sensibili in vario modo alle tematiche dell’arte. Sicuramente le più importanti sono state e sono tutt’ora mio padre, imbianchino-decoratore, mia madre, docente di scuola primaria, uno zio restauratore per conto delle sovrintendenze ai beni storici e artistici. Gli stimoli iniziali mi sono venuti da loro.
DI Come per tanti adolescenti delle periferie milanesi, il mio primo contatto col mondo dell’arte ha coinciso con la scoperta della Graffiti Art sui muri della città. Ho poi iniziato a frequentare mostre e gallerie e, in particolare, la Triennale di Milano. Qui ho conosciuto il design e l’architettura internazionali, restando particolarmente colpito dal lavoro di Ettore Sottsass e del gruppo Memphis. Quell’estetica comunicativa (penso ad esempio alla sensibilità grafica di Nathalie Du Pasquier), quel modo di intendere il design, a cavallo tra arte e artigianato, mi hanno subito impressionato. Ma i miei interessi non sono mai stati settoriali, ed ero anche attratto dalle arti primitive e non europee.
I procedimenti tecnici attraverso i quali nascono le tue opere presentano aspetti abbastanza insoliti rispetto allo standard del pennello intinto nel colore. Ce ne puoi parlare?
SB La presa di distanza dagli strumenti tradizionali è un fatto usuale nell’arte contemporanea. Tutto sta nel sapersi inventare gli utensili e i materiali più adatti alle proprie esigenze. Per la tipologia di lavoro che attualmente perseguo, si è resa necessaria l’ideazione di un “rastrello” costituito da un manico di scopa e da una spatola dentata, avvitati insieme. Ho potuto così creare effetti geometrici lavorando con maggiore comodità, e direttamente sulle superfici che destavano il mio interesse.
DI La pittura è uno dei molteplici aspetti della mia pratica artistica. Attraverso il mio lavoro non miro – come spesso si dice – a “esprimere me stesso”, ma piuttosto a far emergere un’idea anteriore, universale. Prediligo un modo di operare strettamente funzionale, capace di coprire tutto il ventaglio dei miei interessi espressivi. Dunque, quando dipingo su muro cerco di lavorare con il minimo indispensabile. Ritengo che la vera sfida per un artista sia quella di misurarsi con media differenti, adattando il proprio linguaggio alla realtà ambientale in cui si colloca.
A corollario della domanda precedente: i tuoi lavori danno vita a immagini che sono spesso indirette, e sembrano avere alle spalle matrici, stampi, schemi geometrici, maturati in contesti differenti da quello della pittura “pura”. Da dove ricavi questi spunti tematici? Ti affidi al caso o a una strategia?
SB Nei quadri della serie a cui sto lavorando, nulla è lasciato al caso: c’è un rigore tecnico che comporta molti passaggi. Inizialmente occorrono pazienza e attenzione in ogni dettaglio, dalla costruzione del telaio al ritaglio della tela da tessuti riciclati. Una prima intelaiatura serve alla preparazione della tela, con gesso di Bologna e colla vegetale. Successivamente la tela viene smontata dal telaio per essere dipinta con un’azione rapida, posandola sulla superficie prescelta. Spargendo il colore sulla superficie e passandovi sopra il rastrello, viene a crearsi una doppia geometria: la prima e più visibile è la traccia lasciata dallo strumento, mentre la seconda prende vita dalla pressione della rastrellata sulla superficie (mattonelle o altro), formando così un frottage che dà profondità al quadro. L’ultima fase di lavorazione prevede intelaiatura finale e l’esecuzione di eventuali ritocchi.
DI Il riferimento alla storia dell’arte è per me imprescindibile, e inizialmente ha avuto un ruolo fondamentale la riflessione di Piet Mondrian sulla disciplina del colore e della linea. Verticali, orizzontali e diagonali – viste nei loro reciproci rapporti – e colori primari, mi hanno fatto da guida a una possibile idea di mondo, con un suo assetto visivo, comunicativo e architettonico, come si vede nella serie Untitled Block-Manifesto, poi ripresa in una variante, Manifesto Segnico, in cui compare la linea curva, precedentemente esclusa dalla mia pratica. Do grande importanza anche al concetto di sequenza, in cui combinazioni sempre diverse tra le linee danno vita a composizioni potenzialmente infinite, come avviene in musica. In questo senso il mio lavoro è più simile a quello di un progettista che a quello di un pittore tout court. Devo riconoscere che l’architettura, in quanto esperienza antropologica connaturata alle civiltà di ogni epoca, mi ha dato suggerimenti preziosi. Un certo peso hanno avuto anche le suggestioni di scrittori visionari come Philip K. Dick, Aldous Huxley, George Orwell e H.P. Lovecraft.
Alla luce di quanto detto fin qui, ritieni ancora attuale la suddivisione che si ha in Accademia nel campo delle arti visive, dove si distingue tra pittura, scultura, decorazione (con a fianco le arti grafiche), o la avverti come un dato ormai superato dai fatti?
SB Ritengo che la suddivisione dipartimentale dell’Accademia sia al passo coi tempi. È giusto mantenere un riferimento alla tradizione, coi quattro indirizzi storici, evitando così il rischio di un’omologazione generale. Così organizzata, l’Accademia favorisce anche lo scambio di idee e di pratiche tra studenti iscritti a corsi diversi. La peculiarità di ciascuno ne viene esaltata e, al tempo stesso, si crea un grande e variegato gruppo di lavoro.
DI È comunque importante che lo studente possa trasferirsi da un dipartimento all’altro, scegliendo con libertà fra i docenti presenti, se ciò può giovare alla sua crescita artistica. Vedo l’Accademia come una palestra in cui si ha la possibilità di allenarsi e di sbagliare, cercando di individuare la propria strada, cosa non facile quando si parla di creatività.
Anche se non sei uno Street Artist, nel tuo lavoro c’è, implicita, la dimensione della strada, dello spazio urbano con le sue superfici. Cosa pensi della Street Art e, più in generale, della cosiddetta Arte Pubblica? Ti confronti con queste realtà o si tratta di interferenze puramente casuali?
SB Il rimando alla Street Art nei miei lavori è casuale: la dimensione dello spazio, con le sue superfici, è presente nel momento in cui si svolge la vera e propria azione pittorica sulle superfici prescelte. Superfici che possono essere di varia natura, a partire da un luogo privato, come l’interno di una casa, fino a quello pubblico per eccellenza: la piazza. Perseguo una relazione coerente tra opera e luogo, relazione che è sì propria dell’Arte Pubblica, ma è anche un principio basilare della Decorazione, in tutte le sue forme.
DI Essendo un fenomeno globale e multiforme, la Street Art attrae tipologie di pubblico e di artisti anche molto dissimili tra loro. Trovo interessanti diversi esponenti del movimento, sopratutto i pionieri, mentre aspetti che non mi convincono sono la connotazione eccessivamente e genericamente politico-ideologica di molte opere e i troppi riferimenti alla cultura pop. Ad attrarmi maggiormente sono coloro che, per un’approccio più libero con il muro e con lo spazio, scelgono la via aniconica: solo per citarne alcuni, Roberto Ciredz e Guido Bisagni alias 108, ovvero gli esponenti di una sorta di “muralismo contemporaneo”. Quanto all’Arte Pubblica, è forse la sfida più ardua per un artista. L’opera non deve infatti imporsi al pubblico, ma integrarsi nel tessuto urbano e sociale chiamato a riceverla. In questo senso, credo che negli ultimi anni la pittura murale su grande scala sia riuscita nella sfida di dialogare con lo spazio e, insieme, con lo spettatore.
Una domanda forse scontata, ma sempre opportuna: quali sono gli artisti (oltre a quelli attivi in Accademia) ai quali in qualche modo ti ispiri, e a cui senti di dovere qualcosa?
SB Gli artisti attivi nel campo della Optical e della Minimal Art mi sembrano più che mai attuali; spesso i due approcci si fondono, dando vita a operazioni di grande efficacia. La semplicità e la sintesi della Minimal si combinano alla perfezione con l’illusività propria della Optical. Metto tra gli esempi a me più congeniali Bridget Riley o, per altri versi, Valerie Jaudon: gestendo complessi pattern lineari, portano per mano l’osservatore nello spazio da loro creato.
DI Sicuramente un riferimento per me fondamentale, oltre a Piet Mondrian, è rappresentato dall’opera di Sol LeWitt. Aggiungerei un’esperienza come quella di Pattern and Decoration, con artiste come Joyce Kozloff e Valerie Jaudon, e un maestro dell’architettura come Gio Ponti, oltre ad alcuni muralisti contemporanei. Ci tengo a far convivere nel mio lavoro influenze diverse per epoca e provenienza, senza identificarmi in una sola.
C’è un progetto ideale cui ti piacerebbe lavorare?
SB Al momento sto attraversando una fase in cui non mi è ancora ben chiara la strada da percorrere, anche per la grande quantità di suggestioni e di esperienze che, negli anni dell’Accademia, rendono molto complessa l’individuazione di un percorso specifico. In un prossimo futuro mi piacerebbe realizzare grandi opere parietali, private e pubbliche, valorizzando il luogo in cui esse si trovano.
DI Poter intervenire su una struttura architettonica, in esterno o in interno, avvalendomi anche della collaborazione di esperti artigiani, per far convivere tradizione e contemporaneità in una concezione totalizzante. Ma amo anche lavorare a livelli minimali, sia in termini tecnici che linguistico-concettuali, ingegnandomi coi mezzi a disposizione, per creare opere site-specific di volta in volta sempre diverse, quanto a logica creativa e a contesto ambientale.
Homepage: 1) Simone Bertuzzi, Geometrie imperfette, 2023, acrilico su tela, cm. 150 x 150, 2) Davide Infantino, Wall Painting, 2021, idropittura su muro, m. 2,5 x 4 circa.
Sotto: 1) Davide Infantino, Senza titolo, 2020, cartone vegetale sagomato, cm. 60 x 20, 2) Simone Bertuzzi, Geometrie imperfette, 2023, acrilico su tela, cm. 120 x 140 (photo credits S. Bertuzzi, D. Infantino).