“Bisogna essere assolutamente moderni” è il monito lasciato scritto da Arthur Rimbaud in Una stagione all’inferno. Era il 1873, centoquarant’anni fa. Consegnando questa eredità alle generazioni che sarebbero venute dopo di lui, il giovane poeta francese già si accingeva ad abbandonare la letteratura e a partire per l’Africa. Lì egli si sarebbe occupato non di poesia ma, appunto, di essere assolutamente moderno, consegnandosi in toto alla vita e al mondo. Da quel momento la sua fama sarebbe risuonata ovunque, senza che praticamente una riga andasse ad aggiungersi alla sua opera già conclusa.
“Bisogna essere assolutamente contemporanei”, affermano oggi gli epigoni di Rimbaud. Ma non vanno in Africa o anche solo a comprare la sigarette. Al contrario, essi identificano il proprio ruolo sociale e il proprio stesso destino personale nella completa devozione al contemporaneo. Come si esplica questa devozione? In primo luogo nel proliferare di figure e discipline dedicate al contemporaneo. Solo nell’ambito delle arti non si contano ormai più le “scienze” e le “tecniche” del contemporaneo. Un oggetto di studio per definizione sfuggente ed instabile viene sottoposto ad una sorta di TAC permanente. In realtà le radiografie prodotte da questa imponente macchina diagnostica dicono poco o nulla dello stato di salute del paziente, mentre dicono molto delle paure, velleità, ossessioni, affezioni di chi sta dall’altra parte, indossando il camice bianco.
Forse la differenza è proprio questa: nel moderno era permesso, addirittura consigliato uscire ogni tanto per andare a comprare le sigarette, nel contemporaneo è vietato. E se il tanto sospirato quarto d’ora di celebrità ci cogliesse proprio mentre siamo dal tabaccaio?
In alto: Cappella votiva per i caduti della Grande Guerra (particolare), 1928, Montecalvoli, PI (foto © Francesco Fiumalbi).