di Enrico Maria Davoli
La Biennale Architettura di Venezia, la diciottesima da quando la manifestazione prese il via nel 1980, si è chiusa il 26 novembre 2023, con un’ottima risposta di pubblico e molta attenzione da parte della stampa e dei media internazionali. Buona notizia, perché lo sforzo organizzativo è stato notevole, e ha assecondato al meglio la direttrice artistica Lesley Lokko (scozzese di cittadinanza ghanese, docente di architettura e narratrice) nella realizzazione del suo progetto espositivo intitolato The Laboratory of the Future. Esso è una rappresentazione efficace dell’ambiente culturale di Lokko e dei professionisti provenienti da tutto il mondo, ma in buona parte riferibili alla diaspora africana, da lei convocati a Venezia. L’ambizione era però un’altra: fare il punto sugli orizzonti politici, economici, ecologici che, nella prospettiva di Lokko, rendono non più rinviabile la decolonizzazione e la decarbonizzazione del pianeta.
Se per diaspora si intende semplicemente la condizione di tanti professionisti, artisti e intellettuali di origine africana (Lokko inclusa) residenti all’estero, allora la mostra veneziana ne ha dato uno spaccato credibile. Altra cosa è, invece, capire quanto i progettisti/artisti/ricercatori riuniti a Venezia abbiano realmente il polso delle loro terre d’origine, essendo che il loro punto di osservazione si identifica perlopiù nelle capitali occidentali in cui essi vivono e lavorano: New York, Londra, Parigi, Berlino, Amsterdam eccetera. Mentre solo una minoranza vive e lavora in patria, e qui spicca una potenza economica di primo piano come il Sudafrica, con due metropoli “globali” come Cape Town e Johannesburg. La stessa cosa si osserva da tempo anche alla Biennale Arte: tanti autori di origine africana o asiatica, ma ormai americanizzati o europeizzati.
Va sottolineato che l’Africa (un continente immenso, che è assurdo continuare a considerare un tutto unico, ma evidentemente i tempi non sono ancora maturi) non è il solo “sud del mondo” su cui The Laboratory of the Future si focalizzava. Si sono visti, fra i tanti, i casi-studio riguardanti le comunità afroamericane degli USA, la popolazione amazzonica della Colombia, quella cinese dello Xinijang detenuta e rieducata in massa dal governo centrale, e poi comunità nomadi in Maghreb e in Svizzera, insediamenti preistorici in Ucraina, e tanti altri territori alla ricerca di una transizione accettabile, che ponga rimedio ai guasti dell’industrializzazione forzata. Molti di questi approfondimenti tematici non hanno prodotto alcuna proposta architettonica o urbanistica (per quanto ampia sia l’accezione in cui la disciplina viene oggi presentata al pubblico), ma inchieste di taglio statistico, sociologico e antropologico, talvolta più, talvolta meno interessanti. Il Leone d’Oro della stravaganza va a un’analisi condotta su Borgo Rizza, villaggio siciliano di fondazione fascista, riscattato dal suo peccato originale (o, se si preferisce, “decolonizzato”) mediante un’installazione-performance degna del teatro dell’assurdo di Beckett e Ionesco.
Pur muovendosi nel solco indicato dalla mostra principale, i padiglioni nazionali hanno offerto come sempre scenari particolari e sorprendenti, da esplorare uno ad uno. Ne citiamo due europei: quello ungherese, con il nuovo Museo Etnografico di Budapest, e quello romeno, dedicato al ruolo dell’invenzione scientifico-tecnologica come attivatrice di processi interdisciplinari. Il padiglione israeliano completamente sigillato, dove un ronzio proveniente dall’interno simboleggiava il cloud informatico che avvolge il paese, a ripensarlo oggi suonava come un inquietante presagio. Poco lontano, il padiglione russo, ormai al terzo anno di chiusura forzata. Infine, da ricordare il Leone d’oro alla carriera all’architetto, designer, artista e scrittore nigeriano Demas Nwoko (1935).
Homepage: Francis Kéré, Scuola elementare (l'architetto in posa all'interno della biblioteca), 2001, Gando, Burkina Faso (photo credits Erik-Jan Ouwerkerk/Biennale di Venezia).
Sotto: Demas Nwoko, la casa-atelier dell'architetto, 1976, Idumuje Ugboko, Nigeria (www.mondafrique.com).