Disegnare la voluta del capitello ionico seguendo le indicazioni fornite da Andrea Palladio ne I quattro libri dell’architettura potrebbe sembrare un gesto inattuale ed archeologico. Niente di più falso: il linguaggio palladiano resta esemplare nel merito e nel metodo, e la voluta ionica è ancor oggi un’invenzione paradigmatica entro quella fondamentale via al decoro architettonico che fu aperta dai maestri rinascimentali e si spinse fino alla modernità, per essere poi abbandonata con motivazioni pretestuose e ideologiche. L’eredità palladiana permaneva nel decoro dell’architettura civile italiana ancora negli anni trenta del ‘900, prima che l’ideologia loosiana delle “bianche muraglie” trasformasse i palazzi in capannoni.
Si consideri innanzitutto l’unità di misura adottata da Palladio: la diciottesima parte del piede della colonna. Il sistema di misurazione a moduli è il pilastro portante dell’invenzione, tutta rinascimentale, degli ordini architettonici, e il testo di Palladio ne è la più chiara e immediata dimostrazione. Posto che l’unità di misura si trae da una parte significativa del progetto stesso – in questo caso il diametro della colonna – ogni misurazione successiva ne scaturisce attraverso una serie di divisioni (1/2, 2/3 eccetera) o di moltiplicazioni (le diciannove parti dell’abaco ad esempio), che la rendono già di per sé proporzionata ed armonica con tutte le altre. Si tratta di un procedimento completamente diverso dall’attuale, in cui le varie parti vengono pensate e composte in base ad una unità di misura astratta qual è il metro, ossia la quarantamilionesima parte del meridiano terrestre.
Veniamo ora al capitello ionico 〈1〉. Come tanti altri elementi che compongono il sistema greco degli ordini, anch’esso deriva da un archetipo ligneo, il capitello “a stampella” costituito da un tronchetto di legno posto di traverso sulla sommità della colonna, per meglio distribuire il peso. In sostanza, la parte contenente le volute non è un capitello vero e proprio ma un pulvino, cioè un secondo elemento sovrapposto al capitello costituito dall’echino sottostante. Ma va detto subito che ciò che è filologicamente rilevante oggi, in passato lo era molto meno o passava addirittura inosservato.
Sappiamo infatti che, quanto a cognizioni storiche e archeologiche, la cultura rinascimentale non andava oltre lo studio dei ruderi romani. In altre parole, Palladio e i suoi contemporanei ebbero come oggetto di analisi dei manufatti nei quali la motivazione territoriale e culturale propria degli ordini greci era già stata largamante superata, per sfociare in un linguaggio astratto finalizzato al puro decoro degli edifici. Nel mondo romano il dorico e lo ionico, e così pure il corinzio e il tuscanico, erano sistemi a repertorio da usarsi in funzione del fine civile degli edifici – dalla caserma alla villa gentilizia – e non, come nella tradizione greca, l’espressione di una cultura legata a un territorio. La civiltà romana smonta e rimonta gli stilemi greci (e ne elabora di nuovi, si pensi all’ordine composito) non avendo cognizione dell’archetipo originario che sottostà ad ogni singolo elemento compositivo. Semplificando, si potrebbe dire che gli architetti romani fraintesero quelli greci e a loro volta quelli rinascimentali fraintesero i romani. Ognuno parlava un linguaggio decorativo vivo, di volta in volta legittimamente ripreso e attualizzato, come una lingua che si evolve rimanendo pur sempre se stessa.
Mentre in antico la tematica degli ordini architettonici veniva ascritta in toto all’arte dell’architettura, oggi non si può non rilevare come essa, in realtà, costituisca l’archetipo della pura decorazione. Nella problematica degli ordini architettonici, infatti, non vi è spazio alcuno per le questioni strutturali, la cui risoluzione non spetta all’architetto ma semmai al capomastro. Al contrario, tutto verte sulla “bella forma”, intesa come “giusta forma”, da dare agli edifici. Se la funzione marziale ed il carattere austero di una caserma consiglia un ordine dorico, l’eleganza di una villa gentilizia imporrà invece lo ionico, così come l’opulenza di una basilica richiede un composito.
In questo senso, “decorazione” è la sintesi di un percorso teso a rendere consoni e dunque decorosi, sulla base della loro funzione civile, gli edifici. Ed è qui, sul tema scottante della funzione civile, che si innestano le mistificazioni e i fraintendimenti della moderna sottocultura funzionalista per la quale un edificio si riduce ad essere – sono le parole di Le Corbusier – una “macchina per abitare”. Col che, la ricchezza e la millenaria legittimità delle topiche architettoniche consolidate, che affondano le proprie radici nell’archetipo del tempio ligneo greco, vengono di fatto lasciate cadere. Al loro posto, ecco subentrare tutta una serie di topiche improprie desunte da settori non pertinenti, che hanno come modelli prioritari i processi di produzione industriale e i relativi prodotti di serie. Questa riduzione della funzione civile dell’architettura a mera funzione “propria”, a semplice utilità pratico-economica, ha come esito quella sterilità culturale e quella miseria morale che caratterizzano le moderne periferie urbane.
〈1〉 Per approfondimenti: G. Rocco, Guida alla lettura degli ordini architettonici antichi (vol. II, Lo Ionico), Napoli, Liguori, 2003.
In alto: Andrea Palladio, Villa Badoer, 1554-63, Fratta Polesine. Sotto: Andrea Palladio, Loggiato di Villa Serego, 1565, San Pietro in Cariano.