Ornamento e delitto è uno dei testi più citati dai cultori del moderno, ma pochi sono coloro che l’hanno effettivamente letto. In questo sta la sua fortuna, nel senso che già il titolo si prestava ad essere usato come clava, nelle “ordalie” ideologiche del ‘900. Cosicché la lettura del testo veniva ritenuta pleonastica, nella supposizione (erronea) che, comunque, l’autore argomentasse adeguatamente l’assunto del titolo. Oggi essa risulta invece quanto mai opportuna, sia per prendere atto dei presupposti cretini (in senso etimologico) da cui il discorso di Loos scaturiva, sia per confrontare gli esiti conclusivi del suo delirio con le aspirazioni iniziali espresse nello scritto. Sui presupposti c’è da constatare subito che per un secolo si è dato credito, appunto, ad un cretino. Loos raccatta per strada quattro luoghi comuni e, spinto da un fanatismo quacchero, assimilato probabilmente durante il soggiorno americano, li pone come assiomi per derivare conclusioni folli. La storia del ‘900 smentirà poi le sue tesi, ma resta il fatto che, proprio per la loro stupidità e facilità di assimilazione, esse si sono sedimentate nel profondo della cultura moderna sotto forma di consolidati luoghi comuni, per cui oggi non possiamo esimerci da una loro revisione critica, anche a costo di affermare cose ovvie.
Il primo luogo comune da cui Loos prende le mosse è il Darwinismo Sociale, braccio armato della cultura positivista, che, imperniata sull’idea del progresso scientifico, identificava la civiltà occidentale come apice dell’intera evoluzione umana. Il pregiudizio evolutivo di Loos balza all’occhio nel momento stesso in cui egli colloca il Papua al grado zero della civilizzazione umana. Di qui la tesi che, se il Papua è non-evoluto, i suoi comportamenti sono non-giudicabili, in quanto attuati da una bestia: giudicarli equivarrebbe ad applicare categorie morali al leone che sbrana i sui cuccioli. Che il Papua sia una bestia, Loos lo evince non dal fatto che uccida i nemici, ma che poi se li mangi. Ne deriva il seguente sillogismo retorico (in greco epichirema, cioè un sillogismo dalle premesse verosimili ma non necessariamente vere): il Papua è una bestia, il Papua ricopre di tatuaggi il suo corpo e i suoi utensili, quindi l’uomo occidentale moderno che si tatua e/o decora i suoi oggetti è “degenerato”, nel senso di regredito allo stato bestiale. Controprova: le galere sono piene di individui tatuati!
Fermiamoci qui. Punto primo: con due legni legati assieme, una mappa fatta di sassi appesi ad un telaio e seguendo il vento sulla pelle, il Papua naviga da sempre uno sterminato oceano su cui l’uomo occidentale si avventura solo da pochi secoli e con difficoltà. Dal punto di vista evoluzionistico, quindi, la civiltà Papua rappresenta il massimo grado raggiunto sulla navigazione delle rotte oceaniche, rispetto a quella occidentale, in forte ritardo. Punto secondo: è vero che mangiare i propri nemici è prassi disdicevole, però, in un ambiente insulare dove le proteine animali sono rare, magari è una necessità vitale. Sul tema della civiltà, comunque, di li a poco gli evoluti imperi europei dimostreranno sulle pietraie del Carso, nel fango della Marna e sul ghiaccio dei laghi Masuri, di quale grado di “razionale civiltà” siano portatori: di fronte ai milioni di morti del primo conflitto mondiale, il pasto del Papua con qualche nemico ucciso appare come una rimpatriata fra amici. Tuttavia il fatto rimane: il Papua ricopre di tatuaggi se stesso ed i propri oggetti. Perché?
Qui il nostro pensatore, per darsi ragione di un’attività per lui inspiegabile, cioè che l’uomo-bestia primordiale perda tempo in inutili scarabocchi, recupera lo stereotipo psicoanalitico della sessualità, che dovrebbe governare ogni azione umana. Nel suo puritano modo di pensare, quindi, non può che essere la primaria pulsione sessuale (di cui l’uomo primordiale è ancora schiavo, perché appunto non evoluto), a spingere verso la prima manifestazione di ornamento. Ora, se fosse il sesso l’origine delle manifestazioni artistiche, noi, che evoluti siamo, anziché grandi musei d’arte, nelle nostre città avremmo aperto grandi postriboli, molto più utili ed efficaci in questo senso. Visto che così non è, se ne deduce che l’arte scaturisca da altre necessità vitali dell’uomo, considerato anche il fatto che nessun animale la pratica, scimmie comprese, che invece sul sesso la sanno molto lunga.
Partiamo dall’argomento proposto da Loos: il Papua tatua se stesso. Quando i Papua incontrarono per la prima volta l’uomo bianco, lo considerarono nudo, in quanto completamente privo di tatuaggi. Ad una latitudine in cui, per evidenti ragioni climatiche, si vive nudi, le funzioni di identità, status e ruolo sociale, normalmente affidate al vestito laddove invece il clima ne impone l’uso, evidentemente venivano assolte da altri elementi: i tatuaggi appunto. Quelli Papua, nella fattispecie, dichiarano appartenenza tribale, professione e status di chi li porta, come una sorta di carta d’identità. Simile funzione, sia pure con declinazioni diverse, assolvono tutti i tatuaggi dei popoli equatoriali, che, per necessità, vivono nudi come i Papua. Da ciò risulta evidente che le cose stanno in modo antitetico a come il nostro acuto osservatore le leggeva: i Papua sono tatuati non perché sono selvaggi, ma proprio perché sono civili. In quanto esseri umani devono dichiarare a se stessi ed agli altri la propria identità, attraverso segni precisi e canonici. Le scimmie non hanno questa necessità: il maschio dominante risolve tutto a morsi.
Il Decoro è quindi necessità primaria dell’uomo civilizzato, che gli impone di assumere i segni ed i comportamenti caratterizzanti la sua cultura, per inserirsi nel suo gruppo sociale, il quale, a dispetto del moderno pensiero anarchico, è per definizione ente organizzato, ontologicamente gerarchico. L’ornamento, oggetto contro cui si scaglia Loos, è la materia attraverso cui si attua il Decoro, cioè quel repertorio di forme, segni, azioni o cose, componendo le quali si evita l’indecoroso, ossia la condizione di inferiorità culturale o alterità sociale rispetto al gruppo di riferimento. Va da sé, quindi, che il tatuaggio sull’uomo occidentale del ventesimo secolo è indecoroso, e tale rimane nonostante la sua perdurante popolarità. Una cosa infatti è seguire una moda, altra cosa è assolvere all’idea di Decoro: un leader politico tatuato come un “fighetto” agghindato per l’happy hour non sarebbe credibile. Da qui a definire il tatuaggio pratica degenere, però, ce ne corre: i detrattori, al massimo, potrebbero definirla una pratica ridicola. Simmetricamente, però, lo stesso epiteto si potrebbe usare con un Papua che veste abito gessato e bombetta in un’isola equatoriale. Il razzismo occidentale considera ancor oggi etnico il tatuaggio e universale il gessato dei brokers londinesi, ma si tratta in realtà di due paritetiche manifestazioni di decoro, espressione di paritetiche culture, adattate ad ambienti diversi. L’indecoroso, quindi, coincide con il “fuori luogo”. Per questo le conclusioni di Loos risultano razziste, intimamente sfumate di nazismo.
In alto: Lee Marvin e Toshirô Mifune in "Duello nel Pacifico", di John Boorman, 1968. Sotto: John Collier, Ritratto di Charles Darwin, 1883, olio su tela, cm. 125,7 x 96,5, Londra, National Portrait Gallery.