Dunque il ‘900 è il secolo che, eseguendo la sentenza di morte emessa da Loos, ha ucciso l’ornamento. Eppure è anche il secolo che ha letteralmente ricoperto di segni, come in un immenso tatuaggio, l’intero corpo della propria esperienza collettiva, del proprio vissuto storico e antropologico. Simboli, segnaletiche, pubblicità, alfabeti, codici, sono il corredo visivo di ogni evento di cui il secolo XX abbia serbato il ricordo: dai conflitti bellici alle grandi dispute ideologiche, dai riti della cultura a quelli del tempo libero, dalla contestazione giovanile alle rivoluzioni scientifico-tecnologiche. La contraddizione tra una nudità formale prescritta in astratto, come petizione di principio, e il proliferare incontrollabile dei segni che la ricoprono, non potrebbe essere più chiara.
E le “bianche mura” profetizzate da Loos? Esse sono diventate la lavagna di cui due contendenti, la cartellonistica pubblicitaria e il writing urbano, rivendicano l’uso, in una lotta senza sosta. Tuttavia, a lungo andare, tale lotta sta rivelandosi più apparente che reale, giacché le due forme opposte e complementari di (pseudo)ornamento novecentesco – la pubblicità e il writing, appunto – hanno finito per spartirsi equamente gli spazi e raggiungere una sorta di pace armata, necessaria alla legittimità culturale di entrambe.
La prima, la pubblicità, ha monopolizzato i luoghi della visibilità mediatica, quelli in cui i suoi messaggi possono meglio offrirsi al consumo di massa: strade, piazze, monumenti in restauro, stazioni, aeroporti eccetera. La seconda, il writing o graffitismo o street art che dir si voglia, si è a sua volta appropriata degli spazi di risulta generati dalla speculazione edilizia, dal proliferare delle grandi opere pubbliche, dai meccanismi di abbandono e riuso, dallo stesso migrare della pubblicità di muro in muro, di quartiere in quartiere. E non è certamente un caso che tra i due contendenti, ormai consci di non poter più prevalere l’uno sull’altro ma di doversi dividere le attenzioni dello stesso pubblico, si siano stabilite proficue alleanze.
Da un lato, cioè, la pubblicità si è data a simulare una parvenza di impegno e di denuncia sociale, tipici della cultura “alternativa”: si pensi alle campagne pubblicitarie alla maniera di Oliviero Toscani e, in generale, a quel côté pubblicitario che ama ricorrere ad allusioni e doppi sensi in cui si intrecciano sesso, razza, religione, potere, in un mix scandalistico che non scandalizza più nessuno. Dall’altro lato, il graffitismo ha assunto a sua volta i connotati di un’arte per il popolo se non addirittura di regime: vero e proprio alter ego della pubblicità commerciale, la cui missione consiste nel propagandare e diffondere sempre gli stessi messaggi, sempre gli stessi slogan antagonisti, in realtà ufficiali e risaputi. Sicché non stupisce affatto assistere, da qualche tempo in qua, a costose campagne pubblicitarie concepite e realizzate come eventi di street art d’autore: si pensi per esempio a quelle della casa automobilistica Nissan.
Imprigionata nella diarchia street art-pubblicità, sabotaggio-sponsorizzazione, la città è il teatro di una contesa tribale rivista e corretta in chiave contemporanea. Tuttavia, la posta in gioco in questa contesa non è l’uomo nuovo vagheggiato da Loos e mai nato ma, semplicemente, l’uomo: non si tratta cioè di una contesa che possa esser vinta da alcuno, ma solo superata. I grandi temi della Decorazione – repertorio, intelligenza storica, misura, invenzione – sono i temi di un’arte autenticamente “politica”, nell’accezione derivante dalla parola greca polis. E se tale arte inizia, migliaia di anni fa, coi tatuaggi e i copricapi di piume, è proprio perché il corpo è il primo e il più antico di tutti gli abiti, gli utensili e le case dell’uomo.
In alto: mappa della metropolitana della città di Mosca (particolare). Sotto: due immagini di una campagna pubblicitaria della casa automobilistica Nissan, 2012.