Nel dibattito italiano in tema di cultura e ambiente, la Valle dei Templi di Agrigento detiene il primato di citazioni quale esempio di espansione urbana scellerata, perpetrata ai danni di un importante sito archeologico. A tutto ciò viene normalmente associato, per designare una pratica illegale, condotta in spregio alle peculiarità del territorio, il termine “abusivismo”. Ne è testimone il materiale pubblicitario del luogo, che ritrae sempre i templi in campo stretto e affida la visione panoramica a vedute settecentesche.
Il modello agrigentino non è certamente difendibile in quanto tale, e tuttavia ci sembra rappresentare una vera e propria epitome della via italiana alla modernità calvinista teorizzata da Adolf Loos e imposta militarmente nel secondo ‘900 coi modelli di Mies van der Rohe e dei suoi sodali. Condannare i “cattivi esempi” agrigentini, proteggendo al contempo i “buoni principi” milanesi a cui essi di fatto si ispirano, è atteggiamento che non convince ed anzi si tinge di ipocrisia, malafede e razzismo. Vediamo perché.
1. La prima e più ricorrente argomentazione è che in presenza di un simile patrimonio archeologico non si sarebbe dovuto costruire. Capoluogo di provincia, Agrigento sorge su un terreno accidentato, e gli spazi di espansione urbana non abbondano. Dunque, templi o no, se di valle si tratta… Ipocrisia, si diceva. Ovvero: nel momento in cui, nel secondo ‘900, il passaggio dall’economia agricola a quella industriale determina in tutta Italia un massiccio inurbamento e i piccoli centri lombardi e piemontesi si trasformano in dormitori per la grande industria, i teorici della modernità che avallano tali processi nelle zone più progredite del paese pretenderebbero al tempo stesso che altrove si rinunciasse, in tutto o in parte, alle stesse opportunità.
2. Verificato che si tratta di autentica espansione urbana e non di villini per le vacanze, una seconda argomentazione consiste nel rilevare che tali costruzioni sono “brutte”, cioè stridono con l’estetica d’insieme dei templi e del paesaggio. Ma come? L’edificio a torre “razionale”, cioè squallido e anonimo, progettato in base ai più ortodossi canoni funzionalisti a Corsico, Prato o Rapallo rappresenta la modernità e lo sviluppo, mentre ad Agrigento è uno scempio? La presenza dei templi greci smaschera forse la cattiva coscienza degli architetti moderni? Come avrebbero potuto i costruttori agrigentini porsi in controtendenza rispetto ai dogmi razional-modernisti imposti nelle scuole di architettura italiane, nel frattempo staccatesi dalle Accademie di Belle Arti e divenute facoltà universitarie? Se le palazzate agrigentine fossero state edificate secondo i canoni classici, nessuno noterebbe lo “stridore” additandole come “brutte”. La città di Noto proclamata qualche anno fa dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità ebbe una dinamica non troppo diversa, giacché la si ricostruì ex novo dopo il rovinoso terremoto del 1693. Ma come si evince dal confronto fra i modelli dell’architettura classica e i luoghi comuni dell’edilizia moderna utilizzati ad Agrigento, gli architetti dei secoli XVII-XVIII pensavano ancora a se stessi come a degli artisti. Ebbene, basterebbe prendere atto di ciò per rendersi conto che quel che vale ad Agrigento non può non valere anche a Secondigliano, Tor Vergata o Corsico. Ma si correrebbe il rischio di far crollare l’intero castello di carte dell’estetica vetero-modernista.
3. Ecco infine che la malafede apre la strada al razzismo: la soluzione risiederebbe in una fantomatica armonizzazione degli edifici con il paesaggio. Insomma, costruire sì, ma “in sintonia” col territorio circostante, realizzando costruzioni in pietra a secco e tetto in paglia… Razzismo, si diceva. Ovvero: l’operaio lombardo o piemontese, in virtù del proprio ruolo “moderno”, può aspirare alla casa funzionale con spazi e servizi adeguati, mentre l’anacronistico contadino siciliano (perché il razzistico pensiero post-bellico non aveva dubbi sul fatto che se erano siciliani, per forza dovevano essere contadini) dovrà accontentarsi, in nome del “pittoresco”, di una catapecchia che non interferisca col contesto archeologico.
Quello perpetrato nella Valle dei Templi è certamente uno scempio, lo stesso però che si stava perpetrando altrove, nella Valle Padana o nell’Agro Romano. Più che tra gli abitanti di Agrigento, è a casa propria che responsabilità ed equivoci si dovrebbero ricercare. Ed è lì che bisogna rimettere le mani oggi.
In alto: particolare di capitello dorico del Tempio di Zeus, Agrigento, Valle dei Templi. Sotto: una veduta del Tempio della Concordia oggi, sullo sfondo di Agrigento.