La LIX Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia aveva tutte le carte in regola per presentarsi, dopo le restrizioni dovute al Covid-19, come quella della rinascita, ovviamente nel segno degli argomenti più gettonati degli ultimi anni: il ruolo delle donne, le tematiche di genere, la definizione di un nuovo orizzonte intersessuale, interrazziale, interetnico. Ma la parentesi di incertezza apertasi oltre due anni fa con la pandemia si è ulteriormente ampliata con l’esplodere del conflitto russo-ucraino (che ha indotto il curatore Raimundas Malašauskas e gli artisti Kirill Savchenkov e Alexandra Suchareva a dare forfait, lasciando chiuso il padiglione russo), e non è dato sapere né come né quando essa potrà concludersi. Sta di fatto che l’attenzione critica che si stava riaccendendo intorno ai temi in voga prima della pandemia, si è nuovamente intiepidita, e ancora una volta il sistema dell’arte contemporanea naviga a vista, aspettando di capire su cosa davvero valga la pena scommettere.
Ciò premesso, va detto che la mostra tematica Il latte dei sogni, a cura di Cecilia Alemani, risulta varia, diversificata e a tratti divertente per il gran numero di artiste/i chiamate/i a raccolta, ma anche abbastanza labile per chi voglia cercarvi un reale filo conduttore, al di là di una serie di dichiarazioni di principio: il protagonismo e l’antagonismo delle donne nell’arte, l’inventario dei riti corporei e delle identità sessuali, la crisi sociale e ambientale che attanaglia il pianeta. L’impianto teorico deve molto agli scritti di Rosi Braidotti, teorica del post-umano nota come ospite della trasmissione televisiva di Lilli Gruber Otto e mezzo, e questo non irrobustisce l’impianto della mostra.
Capita, per esempio, di imbattersi in opere francamente grottesche, come quelle, dedicate ad alcuni luoghi comuni della pornografia e dei consumi sessuali di massa, della pittrice svizzera Louise Bonnet e del videomaker danese Sidsel Meineche Hansen. L’apice si raggiunge con il cinese Zheng Bo, la cui videoperformance Le Sacre du printemps, consistente in interazioni erotiche tra uomini queer e piante, viene proiettata con l’immagine rovesciata a testa in giù e, all’ingresso della sala, il solito cartello che mette in guardia il visitatore sul fatto che ciò che vedrà potrebbe risultare scabroso.
Gli episodi più interessanti della mostra sono quelli in cui Alemani ci guida alla riscoperta di un’ampia gamma di artiste del secolo XX, che hanno percorso strade interessanti e coraggiose, cercando punti di contatto tra avanguardismo e ricerca antropologica, linguaggi aniconici e calligrafie, arte e artigianato, corpo e opera. Si incontrano così svariate protagoniste della avanguardie storiche rimaste troppo in ombra (Djuna Barnes, Mina Loy, Alice Rahon, Marianne Brandt, Regina, Alexandra Exter, Florence Henri, Hannah Höch, Louise Nevelson, Sophie Taeuber-Arp, Marie Vassilieff), outsider interessate alla medicina, allo spiritismo, all’occultismo, alla psicologia (Milly Canavero, Linda Gazzera, Eusapia Palladino, Georgiana Houghton, Josefa Tolrà, Unica Zürn, Anna Coleman Ladd), dilettanti piene di estro e di genialità (Minnie Evans, Sister Gertrude Morgan, Hélène Smith, Josefa Tolrà), danzatrici e teatranti (Giannina Censi, Elsa von Freytag-Loringhoven, Karla Grosch, Lavinia Schulz e Walter Holdt, Marie Vassilieff), e infine un nutrito gruppo di adepte della poesia visiva.
Di queste stesse chiavi di lettura la curatrice si serve per scegliere non solo le figure già storicizzate (a partire dalla surrealista inglese Leonora Carrington, il cui libro di favole The Milk of Dreams ha ispirato il titolo di questa Biennale), ma anche molte tra quelle viventi. Ed è forse qui il vero leitmotif che attraversa il panorama dei circa 200 nomi riuniti in mostra.
Il latte dei sogni presta inevitabilmente il fianco ad alcune contraddizioni, inplicite nella metodologia storico-critica adottata. Da un lato, infatti, vi è una scuola di pensiero che sottolinea come si possa parlare di arte al femminile, solo quando i codici della tradizione “accademica” (vista come pressoché esclusivo dominio maschile) vengano radicalmente ridiscussi e sovvertiti. Dall’altro lato, però, balza subito all’occhio che, su questa base, alcune tra le migliori artiste presenti in questa Biennale non avrebbero affatto dovuto esserci, proprio perché la loro cifra espressiva è indiscutibilmente “accademica”, “maschile”. Si pensi alla portoghese Paula Rego (1935-2022, morta proprio mentre le sue opere erano esposte a Venezia), all’italiana Leonor Fini (1907-1996), o alla statunitense Simone Leigh (1967, protagonista anche nel padiglione USA). La verità è evidentemente un’altra, e bisognerà prima o poi farsene una ragione: il fatto è che, nelle loro invenzioni formali e stilistiche, queste ed altre validissime artiste gareggiano alla pari coi loro colleghi maschi, senza farsi mancare nessuna sofisticazione, nessun trucco, nessun abbellimento. E in ciò non vi è nulla di male, anzi.
Come sempre in ogni biennale, sono i padiglioni nazionali a riservare alcune delle migliori sorprese. I tre che segnaliamo non si distinguono per operazioni dirompenti e iconoclaste ma, al contrario, per una realizzazione accurata fin nei minimi dettagli, unita ad una grande leggibilità del progetto. L’artista polacca Malgorzata Mirga-Tas (1978) riveste le pareti interne del suo padiglione nazionale con un’enorme installazione tessile, Re-Enchanting the World, dai risultati affini all’arazzo, compositivamente ispirata al Ciclo dei Mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara. L’opera illustra con grande eleganza e varietà di accenti, secondo precise partiture architettoniche, la cultura rom dell’autrice, scandita lungo le stagioni, i segni dello zodiaco, i decani. Un bellissimo omaggio a un’Europa che c’è e non c’è, appare e scompare.
Il serbo Vladimir Nikolic (1974) presenta due video antinarrativi, di pura contemplazione. Il primo, Walking with Water, è un’enorme orizzonte marino – solo l’azzurro dell’acqua e del cielo – la cui proiezione occupa l’intera lunghezza della parete posta di fronte a chi entra nel padiglione: un grande nulla, un panorama in cui si possono seguire i movimenti frastagliati delle onde e niente più. Il secondo, 800 m, una schermata di dimensioni più contenute ma comunque impressionanti, posta in verticale anziché in orizzontale, è la ripresa perfettamente zenitale di una piscina olimpionica, in cui l’artista stesso si misura con una lunga nuotata, vasca dopo vasca, all’infinito. Non la “memoria dell’acqua” – per citare una delle amenità parascientifiche che hanno goduto di una certa diffusione negli ultimi anni – ma, semmai, l’oblio senza fondo dell’acqua.
La statunitense Simone Leigh, presente anche nella mostra che dà il titolo a quest’edizione della Biennale, espone nel padiglione del suo paese imponenti sculture in bronzo, ceramica e paglia che sono un omaggio, esplicito e per nulla timoroso della retorica, alla donna afroamericana, al suo ruolo nella storia degli USA, alle sue lontane radici nel continente nero. L’artista interviene anche sull’architettura classicheggiante del padiglione, intonandola a quella di certe costruzioni effimere dell’Esposizione Coloniale di Parigi del 1931, con un camuffamento etnografico che, più che un argomento polemico, potrebbe essere invece il tentativo di una ricomposizione, l’auspicio di un mondo che ritrova se stesso in ogni esperienza, e cerca di vivere in essa.
La LIX Biennale Arte di Venezia apre dal 23 aprile al 27 novembre 2022 nella due sedi dei Giardini e dell’Arsenale. Il catalogo è pubblicato da Edizioni la Biennale di Venezia.
In alto: Paula Rego, Sleeper (particolare), 1994, pastello su carta su alluminio, cm. 120 x 180 (esposto alla Biennale 2022, "The Milk of Dreams", courtesy l'artista, Victoria Miro, foto Nick Willing). Sotto: Simone Leigh, Last Garment, 2022, Bronzo, cm. 137.2 × 147.3 × 68.6, Biennale 2022, Padiglione USA (Courtesy the artist and Matthew Marks Gallery, foto Timothy Schenck).