I.
Nell’arco cronologico compreso fra i secoli XVIII e XX, la rivoluzione industriale e lo sviluppo dell’industrial design costituiscono un crinale particolarmente arduo per chi si occupa di storia e di cultura della decorazione. I processi di finitura artigianale che, in tutta la tradizione precedente, determinavano l’identità visiva dei manufatti, dotandoli di una gamma pressoché inesauribile di ornamenti – dai più semplici pattern grafici fino ai più imponenti apparati pittorici e plastici – subiscono un processo di omologazione e di impoverimento tecnico.
Fagocitati dall’economia del progetto e da uno strumentario meccanico sempre più pervasivo, tali processi perdono buona parte del fascino che esercitavano quando portavano su di sé, tramandandolo ai posteri, l’imprinting di quella particolare bottega, di quel particolare distretto produttivo. Al “ben fatto” di stampo manuale/artigianale, confinato in mansioni sempre più marginali e specialistiche, non rimangono che le briciole del prestigio che, un tempo, gli veniva ovunque riconosciuto.
Vi è dunque una separazione netta fra un “prima” e un “dopo”. Ma questa separazione è anche il luogo privilegiato da cui è possibile gettare uno sguardo panoramico. Uno sguardo che aiuti a comprendere meglio il passato e a scommettere sul presente, anche se ci sembra avaro di prospettive e di slanci. Per fare questo, occorre capire cosa davvero è andato perso, evitando di mitizzare il tempo che fu. Cerchiamo allora di mettere a fuoco – con l’appoggio di alcune letture che chiunque può scoprire o riscoprire – alcuni spunti tematici degni di attenzione 〈1〉.
II.
Con la rivoluzione industriale, ciò che si definisce artistico e ciò che si definisce artigianale imboccano strade divergenti. La produzione in serie di tipo industriale si interpone sistematicamente tra l’uno e l’altro; né l’uno né l’altro possono più definirsi, se non in sinergia o in contrasto con essa. L’arte si avvia ad essere ciò che ci appare oggi: e cioè una produzione legata ad una sfera eminentemente intellettuale, riflessiva, individualistica, dove l’apporto manuale gioca un ruolo sempre più aleatorio. A sua volta, la parola artigianato diventa sinonimo di esecuzione corretta e imparziale, frutto di una prestazione lavorativa esattamente quantificabile, in termini di manodopera e di materiali impiegati.
Per quanto disequilibrata, la convivenza tra oggetti di età preindustriale non comportava mai un divario incolmabile tra un oggetto e l’altro, o tra un modo e l’altro di immaginare, produrre e utilizzare lo stesso oggetto. La decorazione era, per così dire, in mezzo al guado: l’invenzione decorativa, con le connesse operazioni progettuali, era invenzione artistica al massimo grado; l’esecuzione richiedeva perfetta padronanza delle tecniche artigianali di volta in volta richieste. È proprio questo ruolo di collegamento e di intermediazione che, nel corso del tempo, è diventato insostenibile, mettendo in crisi la funzione storica del decoro e dei relativi repertori ornamentali 〈2〉.
III.
Dunque, artigianato e arte si compenetrano in tutte le attività produttive di età preindustriale. Artigianale, nella cura dei gesti e nella suddivisione dei compiti tra maestro e aiuti, è l’esecuzione anche delle opere d’arte più importanti, i capolavori oggi custoditi nei musei o semplicemente ricordati dalle fonti. Per contro, un quid di artistico – il distillato di una serie di conquiste creative che si possono far talvolta risalire a maestri identificabili, ma molto più spesso sono anonime – è sempre presente in un oggetto d’epoca, anche il più vile e ripetitivo.
Alla base della trasmissione dei saperi artistici e artigianali del passato più lontano vi è una manualità esercitata a risolvere sempre più brillantemente, di generazione in generazione, gli stessi problemi. Ciclicamente, la sfida tecnica e virtuosistica che pochi in principio sono in grado di affrontare, finisce col diventare routine, innescando nuove possibilità, fino allora inesplorate. E così via. Si impara facendo, si impara sbagliando.
In età preindustriale, anche le macchine (perché se ne sono sempre costruite, per alleviare la fatica e migliorare le prestazioni) non sono che un prolungamento della mano dell’uomo, non essendo in alcun modo programmabili per compiere azioni al suo posto. L’esercizio corretto, rigorosamente codificato, della manualità, è la base comune. Gli artisti sono, nella misura in cui manipolano e trasformano la materia, artigiani. A loro volta, i migliori e più rinomati fra gli artigiani possono ambire alla condizione dell’artista, creatore di forme nuove.
In sintesi: nelle società premoderne, tutti gli oggetti, dai più umili e quotidiani fino a quelli, preziosi e irripetibili, oggi venerati come opere d’arte e monumenti storici, vivono sotto lo stesso regime estetico. Entro questo regime, si può passare da un estremo all’altro senza soluzioni di continuità. I modelli canonici elaborati dalle botteghe più importanti, vengono declinati in forme via via più semplici e riduttive, che però non arrivano mai a stravolgerne l’identità.
Per fare un esempio forse banale, ma non del tutto inutile: è vero che le suppellettili di una casata aristocratica rinascimentale differiscono enormemente, in quantità e qualità, da quelle di una famiglia contadina; eppure, nulla di ciò che differenzia le due diverse situazioni eguaglia il contrasto che vi è tra un set di posate metalliche e uno di posate usa-e-getta in plastica, entrambi presenti in molte case di oggi 〈3〉.
IV.
Naturalmente, il divario che separa arte e artigianato comporta un ventaglio di gradazioni più o meno ampio a seconda dei tempi e dei luoghi in cui lo si misura. Di norma, tale divario è pressoché nullo nelle società più arcaiche, socialmente livellate, dove la disponibilità di beni di consumo è scarsa. Esso invece tende ad allargarsi con l’aumentare della complessità sociale, quando la gamma crescente di occasioni e di riti stimola ovunque (nell’abbigliamento, negli strumenti di lavoro, nelle suppellettili, negli arredi…) un ventaglio sempre più ampio di invenzioni e variazioni. Se la richiesta di beni aumenta, l’offerta si differenzia e si complica.
Inutile negarlo: il panorama compatto ed unitario che le attività dell’ingegno umano offrivano in passato, è in netta controtendenza rispetto a quello odierno. Non si tratta ovviamente di vagheggiare un’età dell’oro, peraltro mai esistita. Ma quella nostalgia di un’unità perduta che spesso proviamo pensando al tempo che fu, ha probabilmente a che fare con quelle particolari modalità operative, che non escludevano nessuno, anzi, obbligavano tutti a partecipare. Le filiere produttive che licenziavano i capolavori erano le stesse che presiedevano alla nascita delle varianti, delle copie, delle imitazioni, delle riduzioni, anche le più dozzinali. Le varie attività erano strettamente intrecciate l’una all’altra, radicate da sempre negli stessi distretti geografici, vicino alle stesse fonti di materie prime.
Cambiava, e di molto, la condizione degli uomini: dallo schiavo al guerriero al sacerdote al re. Restava invece sostanzialmente invariata la condizione di percezione e di utilizzo degli oggetti. Quale che fosse la versione, più o meno elaborata, più o meno esclusiva, che ciascuno poteva permettersi di un oggetto, non mutavano gli archetipi formali, i repertori compositivi, i criteri proporzionali, gli abbinamenti funzionali e simbolici 〈4〉.
V.
Con tutta la prudenza del caso, si può dire che, nei contesti preindustriali, le direttrici di marcia su cui la progettazione di un manufatto si sviluppa – forma, dimensioni, materiali, pigmentazioni, modulazioni ornamentali – abbiano ben poco di estemporaneo o di individualistico, perlomeno nei termini ai quali oggi siamo abituati. Tutto ricade in casistiche lungamente collaudate, che inglobano via via le innovazioni tecniche e formali, innestandole sul tronco vivo della tradizione.
Il progetto – se di progetto si può parlare – non prende forma come istanza individuale, ma come work-in-progress che ha alla base un patrimonio di idee largamente condiviso, e si sviluppa come variazione su un tema dato. L’artefice concepisce il manufatto facendo riferimento a un armamentario tecnico, formale e stilistico che è patrimonio della bottega in cui lavora, e a cui egli potrà apportare, se ne sarà in grado, esperienze e migliorie ulteriori.
A custodire tale patrimonio provvedono, al di sopra delle botteghe, le associazioni di categoria preposte a disciplinare l’esercizio delle arti e dei mestieri. Nel corso della storia, le organizzazioni che riuniscono quanti praticano lo stesso lavoro hanno preso forme e nomi diversi: dai collegia dell’antica Roma alle corporazioni e alle gilde medievali. Ma tutte si somigliano in alcuni aspetti fondamentali. Si tratta di organizzazioni gerarchiche, premianti l’anzianità e l’esperienza. Esse difendono il proprio capitale di nozioni ed invenzioni tecniche dall’appropriazione da parte di estranei, ne amministrano i vantaggi per i propri affiliati, vagliano la condotta delle varie botteghe, sanzionano le eventuali infrazioni alle regole di comportamento comuni.
Nell’economia schiavistica dell’antichità, e anche in quella medievale basata sulla servitù, qualunque forma di rivendicazione artistica ed intellettuale su quanto si produce è esclusa. Solo chi pratica le arti liberali (espressione con cui si definisce l’insieme delle discipline letterarie, giuridiche, filosofiche, matematico-geometriche, poste al vertice del sapere) può in qualche caso ambirvi. Alle arti meccaniche (ossia le attività di tipo manuale) si riconosce la caratura di fenomeni culturalmente e spiritualmente rilevanti, solo in quanto la fatica del lavoro è, per eccellenza, la strada che conduce al retto vivere e, in ottica cristiana, alla vita eterna.
Non c’è motivo perché colui che disegna e fabbrica mobili, gioielli, stoffe, abiti, ceramiche o altro, venga considerato alla stregua di un autore da celebrare in modo speciale. Tale onore può essere accordato – ed anche qui molto raramente – solo a coloro che operano nei campi più sofisticati ed istituzionali della visualità, quali l’architettura, la scultura, la pittura, la grafica dei codici miniati 〈5〉.
VI.
Si aggiunga infine che, nelle età precedenti la rivoluzione industriale, il panorama delle risorse naturali e della loro reperibilità era ben altro da quello che ci appare oggi. L’assortimento di materie prime utilizzabili nei vari settori produttivi era limitato, e non si ampliava che molto lentamente e tra mille difficoltà. Le qualità e le prestazioni dei vari materiali apparivano pressoché immutabili, fissate da sempre e per sempre. A dispetto delle raffinazioni cui essi venivano sottoposti, la loro origine animale, vegetale o minerale restava un dato di fatto comunque chiaro, facilmente osservabile.
Tutta la gamma degli artefatti umani si sedimentava in serie articolate: dai recipienti ceramici ai tappeti, dalle sete ai merletti, dai vetri alle argenterie, dai caratteri epigrafici ai vari tipi di scrittura manuale utilizzati su papiro, pergamena e carta, dalle armi agli attrezzi agricoli, dai mezzi di trasporto terrestri alle imbarcazioni, dai mobili ai rivestimenti ceramici. Come per i macro-oggetti dell’architettura, così anche per tutti gli altri, le varie civiltà disponevano di manuali e repertori, anche se ben poco ne è giunto fino a noi.
Ne è conseguito che, fino a pochi secoli fa, il rapporto uomo-oggetti si è caratterizzato prevalentemente nel segno della stabilità, dell’abitudine consolidata. O, se si preferisce, di un mutamento quasi insensibile, al punto da poter essere scambiato per un’evoluzione spontanea, indipendente dalla volontà umana.
Tutto quanto detto fin qui non significa, naturalmente, che il progresso scientifico e tecnologico non fosse avvertito anche nelle epoche più lontane. Ma solo con la rivoluzione industriale e con l’entrata a regime dell’industrial design, cominciò a farsi strada l’idea che un oggetto potesse essere continuamente pensato e ristrutturato ex novo, con ampi margini di discrezionalità e lasciandosi alle spalle tutto quanto era stato fatto fino a quel momento 〈6〉.
〈1〉 Crisi dei modelli artigianali e origini dell'industrial design: G. Chigiotti, Design. Una storia, Franco Angeli, Milano 2010. 〈2〉 Decorazione, ornamento e decoro nella tradizione artistica europea: E.M. Davoli, Da Corinto ad Avalon. Storie di decorazione e arte in Occidente, CLEUP, Padova 2021. 〈3〉 Vicende e ambiti dell'artigianato: E. Lucie-Smith, Storia dell'artigianato, Laterza, Roma-Bari 1984. 〈4〉 Prospettive culturali e antropologiche dell'artigianato: R. Sennett, L'uomo artigiano, Feltrinelli, Milano 2008. 〈5〉 Posizione e prestigio sociale dell'artista: J. Gimpel, Contro l'arte e gli artisti. Nascita di una religione, Bollati Boringhieri, Torino 2000 [ed. or. 1968]. 〈6〉 Serie, sequenze, invenzioni, repliche: G. Kubler, La forma del tempo. La storia dell'arte e la storia delle cose, Einaudi, Torino 1976. In alto: Bernard Palissy (attribuito a), Frammento di vassoio con anguilla, 1550-75 circa, terracotta invetriata, Parigi, Louvre (Sukkoria/Wikimedia Commons). Sotto: Gerrit Thomas Rietveld, Poltroncina "Crate", 1934, legno verniciato, cm. 58,5 x 65 x 62, collezione privata.